PREMESSA. Mediante la sentenza n. 253 del 2019, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 4-bis, comma 1, della legge n. 354 del 1975 (“Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà”), «nella parte in cui non prevede che, ai detenuti per i delitti di cui all’art. 416-bis del codice penale e per quelli commessi avvalendosi delle condizioni previste dallo stesso articolo ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste, possano essere concessi permessi premio anche in assenza di collaborazione con la giustizia a norma dell’art. 58-ter del medesimo ordin. penit., allorché siano stati acquisiti elementi tali da escludere, sia l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, sia il pericolo del ripristino di tali collegamenti».

I RICORSI. Con ordinanza del 20 dicembre 2018, la Corte di cassazione ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit., «nella parte in cui esclude che il condannato all’ergastolo, per delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416-bis cod. pen., ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste, che non abbia collaborato con la giustizia, possa essere ammesso alla fruizione di un permesso premio». Tra le altre cose, è stata contestata l’assolutezza della preclusione, che porta ad escludere qualunque valutazione relativa alla effettiva pericolosità del condannato, comportando per quest’ultimo l’aprioristica inammissibilità di ogni richiesta di accesso ai benefici penitenziari. Per il giudice rimettente, inoltre, l’impossibilità di accedere a tali benefici determinava l’avvilimento della funzione di risocializzazione della pena.

Il Tribuna di sorveglianza di Perugia, con ordinanza del 28 maggio 2019, ha sollevato a sua volta questioni di legittimità costituzionale del medesimo art. 4-bis, comma 1, «nella parte in cui esclude che il condannato all’ergastolo per delitti commessi al fine di agevolare l’attività dell’associazione a delinquere ex art. 416 bis cod. pen. della quale sia stato partecipe, possa essere ammesso alla fruizione di un permesso premio». In questo caso, si è dubitato della conformità alla Costituzione dell’obbligo di collaborare con la giustizia per poter accedere ai benefici previsti dall’ordinamento penitenziario (e, in particolare, ai permessi premio), indipendentemente dal tipo di reato commesso dal detenuto: in tale circostanza, si trattava infatti di un soggetto recluso, oltre che per reati di “contesto mafioso”, anche per il delitto di associazione mafiosa. Come pure rilevato in riferimento all’ordinanza della Corte di cassazione, si è poi sottolineata la frustrazione cui sarebbe inevitabilmente sottoposta la funzione rieducativa della pena nell’impossibilità di beneficiare di uno strumento – quale è il permesso premio – «fondamentale per consentire al condannato di progredire nel senso di responsabilità e di capacità di gestirsi nella legalità, e al magistrato di sorveglianza di vagliare i progressi trattamentali compiuti e la capacità di reinserirsi, per quanto brevemente, nel tessuto sociale».

LA DECISIONE. Per i giudici costituzionali, a contrastare con gli articoli 3 e 27, terzo comma, della Carta fondamentale è l’assolutezza della presunzione del collegamento con la criminalità organizzata del detenuto non collaborante. «Non è infatti irragionevole presumere che il condannato che non collabora mantenga vivi i legami con l’organizzazione criminale di originaria appartenenza, purché – specifica la Corte – si preveda che tale presunzione sia relativa e non già assoluta e quindi possa essere vinta da prova contraria» (punto 8 del Considerato in diritto).

A giustificare il tenore del provvedimento in esame sono tre distinti, ma interconnessi, ordini di ragioni.

In primo luogo, sono censurate le ulteriori conseguenze afflittive a carico dell’individuo che non collabora con l’autorità giudiziaria: «alla stregua dei principi di ragionevolezza, di proporzionalità della pena e della sua tendenziale funzione rieducativa, un conto è l’attribuzione di valenza premiale al comportamento di colui che, anche dopo la condanna, presti una collaborazione utile ed efficace; ben altro è l’inflizione di un trattamento peggiorativo al detenuto non collaborante, presunto iuris et de iure quale persona radicata nel crimine organizzato e perciò socialmente pericolosa» (punto 8.1). In questo modo, oltretutto, viene operata «una deformante trasfigurazione della libertà di non collaborare […], che certo l’ordinamento penitenziario non può disconoscere ad alcun detenuto.
Garantita nel processo nella forma di vero e proprio diritto, espressione del principio nemo tenetur se detegere [nessuno può essere obbligato ad affermare la propria responsabilità penale; ndr], la libertà di non collaborare, in fase d’esecuzione, si trasforma infatti – quale condizione per consentire al detenuto il possibile accesso all’ordinario regime dei benefici penitenziari – in un gravoso onere di collaborazione che non solo richiede la denuncia a carico di terzi […], ma rischia altresì di determinare autoincriminazioni, anche per fatti non ancora giudicati» (ibidem).

In secondo luogo, il carattere assoluto della presunzione, impedendo preliminarmente alla magistratura di sorveglianza qualsivoglia valutazione di merito sul percorso carcerario del condannato, confligge con la funzione rieducativa (nonché con i principi di proporzionalità e individualizzazione) della pena. Per giunta, «l’inammissibilità in limine della richiesta del permesso premio può arrestare sul nascere il percorso risocializzante, frustrando la stessa volontà del detenuto di progredire su quella strada» (punto 8.2).

In terzo luogo, a collidere con i valori costituzionali è pure la generalizzazione su cui si basa la più volte richiamata presunzione. Viene difatti constatata l’irragionevolezza – oltreché, anche sotto questo aspetto, il conflitto con la funzione rieducativa della pena – «di una presunzione assoluta di pericolosità sociale che, a prescindere da qualsiasi valutazione in concreto, presupponga l’immutabilità, sia della personalità del condannato, sia del contesto esterno di riferimento» (punto 8.3).

Cionondimeno, la peculiare natura dei reati di cui trattasi implica che «la presunzione di pericolosità sociale del detenuto che non collabora, pur non più assoluta, sia superabile non certo in virtù della sola regolare condotta carceraria o della mera partecipazione al percorso rieducativo, e nemmeno in ragione di una soltanto dichiarata dissociazione, ma soprattutto in forza dell’acquisizione di altri, congrui e specifici elementi». Essi sono sostanzialmente riconducibili all’esclusione dell’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata e del pericolo di un loro ripristino, gravando peraltro «sullo stesso condannato che richiede il beneficio l’onere di far[n]e specifica allegazione» (punto 9).

Da ultimo, per evitare «la creazione di una paradossale disparità» e per non «compromettere la stessa coerenza intrinseca dell’intera disciplina di risulta» (punto 12), il giudice delle leggi ha esteso l’efficacia del suo intervento anche oltre i reati di criminalità organizzata di matrice mafiosa, ricomprendendovi tutti quelli previsti dal primo comma dell’art. 4-bis, ordin. penit. (per l’elencazione dei quali si rimanda a questa scheda).

dicembre 2019

 

(a cura di Luca Fiordelmondo, Master APC dell’Università di Pisa)