1.Premessa. Nel quadro delle misure volte a contrastare la presenza delle organizzazioni criminali nelle attività economiche, soprattutto con riferimento agli appalti pubblici, un ruolo rilevante è svolto dalla certificazione antimafia disciplinata dal decreto legislativo n. 159 del 2011 (nell’allegato 1 sono riportati gli articoli 67, 83, 84, 85, 86, 87, 88, 89 bis, 90, 91 e 94). Qui di seguito sono descritti i tratti caratteristici di tale istituto, anche alla luce della giurisprudenza e, in particolare, della sentenza del Consiglio di Stato n. 1743 del 2016, che afferma principi utili a garantire una maggiore uniformità in sede di esame dei ricorsi da parte dei giudici amministrativi (si riporta il testo integrale della sentenza nell’allegato 2; per la più recente giurisprudenza vedi in particolare la sentenza n. 2231 del 2018 dello stesso Consiglio di stato, riportata nell’allegato 4). Particolare attenzione è dedicata all’analisi delle fattispecie più ricorrenti attraverso cui si realizza la strategia mafiosa di asservimento o condizionamento delle imprese.
2.Comunicazione e informazione antimafia. Il codice antimafia (art. 84) fa riferimento a due diversi istituti: da un lato, la comunicazione antimafia, emanata in caso di soggetti che hanno ricevuto, con provvedimento definitivo, una misura di prevenzione di cui al codice antimafia, con conseguente divieto di concludere contratti pubblici e decadenza da licenze, autorizzazioni, concessioni etc; dall’altro, l’informazione antimafia con la quale si attesta anche la sussistenza di eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi di società o imprese, e che determina in particolare l’impossibilità di stipulare contratti con la pubblica amministrazione (vedi al riguardo la sentenza del Tar Toscana n. 910 del 2018).
La giurisprudenza amministrativa e la stessa Corte costituzionale (sentenza n. 4 del 2018) sottolineano la logica unitaria che ispira il codice antimafia, superando la tradizionale impermeabilità dei dati posti a fondamento della comunicazione antimafia e dell’informazione antimafia; il legislatore, attraverso successive integrazioni della normativa originaria, ha infatti individuato una serie di strumenti in grado di garantire, attraverso approfonditi accertamenti, una tutela rafforzata alle situazioni estremamente pericolose di coinvolgimento delle organizzazioni criminali in qualsiasi attività di natura imprenditoriale, consentendo “di introdurre ipotesi in cui tale infiltrazione, alla quale corrisponde l’adozione di un’informazione antimafia, giustifichi un impedimento non alla sola attività contrattuale della pubblica amministrazione, ma anche ai diversi contatti che con essa possano realizzarsi nei casi ora indicati dall’art. 67 del d.lgs. n. 159 del 2011”; di conseguenza, “la comunicazione e l’informazione antimafia resterebbero soggette a una disciplina sostanzialmente equivalente, in quanto gli accertamenti tipici dell’informazione dovrebbero esperirsi in ogni caso, in contrasto con il complessivo impianto della disciplina volta a distinguere i due istituti”. Sui profili di compatibilità della disciplina del codice antimafia con il dettato costituzionale e con i principi comunitari in materia di diritti dell’uomo, anche alla luce delle recenti pronunce della Corte europea, vedi la sentenza del Tar Napoli n. 1017 del 2018, che ha giudicato manifestamente infondata la questione di costituzionalità avanzata dal ricorrente.
3.La finalità dell’informativa della prefettura. L’informazione antimafia non è una misura di carattere sanzionatorio, trattandosi di uno strumento di interdizione e di controllo sociale, volto a contrastare le forme più subdole di aggressione all’ordine pubblico economico, a salvaguardia della libera concorrenza tra le imprese e del buon andamento della pubblica amministrazione; è infatti interesse dell’Amministrazione poter verificare ”affidabilità” e “moralità” delle imprese con le quali stipula rapporti contrattuali, come le concessioni demaniali (vedi al riguardo la sentenza del Consiglio di Stato n. 1638 del 2017), ivi incluse quelle che operano in subappalto (vedi ad esempio la sentenza del Tar Lazio n. 2871 del 2017), sin dall’avvio delle procedure di gara (vedi al riguardo la sentenza del Tar del Lazio n. 4426 del 2017). Ai sensi dell’art. 94 del codice antimafia, in presenza di un “pericolo di infiltrazione mafiosa” all’interno dell’impresa, viene precluso ogni rapporto con l’Amministrazione ovvero l’ottenimento di benefici economici, con conseguente revoca dell’aggiudicazione o, se la stipula negoziale è già intervenuta, della risoluzione del contratto e può portare anche alla restituzione delle erogazioni già percepite: tale obbligo si applica anche ai casi in cui l’informativa antimafia viene trasmessa successivamente alla stipula del contratto (vedi le sentenze del Consiglio di Stato nn. 3247 del 2016 e 5470 del 2017 e del Tar Catanzaro n. 1808 del 2016), salvo casi particolari, come quello disciplinato dall’art. 32, comma 10, del decreto legge n. 90 del 2014, che affida alla prefettura l’autorizzazione al completamento dell’esecuzione del contratto e la continuità di funzioni e servizi indifferibili per la tutela di diritti fondamentali, o la salvaguardia dei livelli occupazionali o dell’integrità dei bilanci pubblici (a quest’ultimo riguardo vedi ad esempio le sentenze del Consiglio di Stato n. 3400 del 2016, del Tar Catania n. 25 del 2017 e del Tar Campania n. 2800 del 2018: quest’ultima sentenza sottolinea le differenze tra l’attivazione della procedura da parte del prefetto e quella da parte dell’Anac ai sensi dell’art. 32, comma 1). Rimane salvo il potere generale di autotutela della stazione appaltante, con particolare riferimento al caso in cui le misure straordinarie e temporanee di gestione sono adottate per situazioni anomale e sintomatiche di condotte illecite o eventi criminali, come avviene in conseguenza di una interdittiva antimafia (sentenza del Consiglio di stato n. 5027 del 2018). Sempre con riferimento alle aziende sottoposte a commissariamento per interdittiva antimafia o ad amministrazione straordinaria a seguito di sequestro giudiziario, va precisato che la nomina del nuovo amministratore giudiziario non preclude la partecipazione ad appalti pubblici limitatamente alle gare indette dopo la nomina stessa (misura volta proprio a recidere i legami dell’azienda con i gruppi criminali): in caso contrario di deve presumere che l’illecita infiltrazione criminale possa avere influito sull’esito della procedura di gara (vedi in particolare le sentenze del Consiglio di Stato n. 3633 del 2016 e del Tar Liguria n. 978 del 2016 nonchè l’ordinanza del Consiglio di Giustizia Amministrativa n. 548 del 2016).
4.Ambito di applicazione. La legge prevede un obbligo per le Amministrazioni di verificare l’assenza del pericolo di infiltrazione mafiosa per i contratti di importo superiore a 150 mila euro (art. 83 del D. Lgs. n. 159/2011) e per alcune tipologie di lavori, considerate ““come maggiormente esposte a rischio di infiltrazione mafiosa” anche sotto questa soglia (vedi sul punto l’art. 1, comma 53 della legge n. 190 del 2012 e la sentenza del Tar L’Aquila n. 184 del 2017) fatta salva la facoltà della stessa Amministrazione di richiedere la documentazione antimafia anche per gare di più modesto valore (vedi sentenze del Tar Lecce n. 1005 del 2016 e del Consiglio di stato nn.4922 e 4938 del 2018), come espressamente previsto da alcuni Protocolli di legalità. L’Amministrazione è obbligata ad uniformarsi alle risultanze degli accertamenti della prefettura, in quanto la legge è “volta ad evitare radicalmente l’erogazione di risorse pubbliche a soggetti esposti ad infiltrazioni di tipo mafioso, e che pertanto mal tollera che ciò possa avvenire solo entro determinati limiti quantitativi” (cfr. le sentenze del Consiglio di Stato n. 3300 e n. 3566 del 2016; vedi anche la sentenza n.220 del 2016 del Tar Reggio Calabria, quella del Tar Roma n. 11723 del 2016 e la sentenza del Tar Calabria n. 90 del 2017); e risulta legittimo il provvedimento di sospensione delle erogazioni assunto da un’Amministrazione, in attesa della verifica da parte della prefettura in ordine al pericolo di infiltrazione mafiosa (sentenza Tar Lazio n. 2692 del 2017). Le imprese sono tenute a fornire tutti i dati necessari all’espletamento delle verifiche antimafia (vedi sentenza del Tar Napoli n. 3767 del 2016).
Va inoltre ricordato che per le Amministrazioni sciolte per infiltrazioni mafiose è disposto comunque l’obbligo di “acquisire, nei cinque anni successivi allo scioglimento, l’informazione antimafia precedentemente alla stipulazione, all’approvazione o all’autorizzazione di qualsiasi contratto o subcontratto, ovvero precedentemente al rilascio di qualsiasi concessione o erogazione indicati nell’articolo 67 indipendentemente dal valore economico degli stessi” (art. 100 del codice antimafia) (vedi sul punto anche la sentenza del Tar Catanzaro n. 309 del 2017 e quella del Tar Reggio Calabria n. 241 del 2017; un focus specifico è dedicato all’esperienza del comune di Corleone).
L’applicazione delle informazioni antimafia è stata legittimamente estesa anche alle attività economiche tra privati al fine di preservare l’intero sistema dell’economia legale, pubblica e privata, da infiltrazioni mafiose, laddove emergano elementi di condizionamento dell’impresa (Sull’applicazione del sistema delle informative antimafia ai casi di rilascio di autorizzazioni e licenze leggi questa scheda, che dà conto anche della sentenza n. 4 del 2018 della Corte costituzionale al riguardo). E il Consiglio di Stato, decidendo in merito ad un ricorso di una società colpita da interdittiva antimafia, ha sottolineato che l’interdittiva prefettizia determina una particolare forma di incapacità ex lege, sia pure temporanea (in quanto un successivo provvedimento dell’autorità amministrativa competente potrebbe revocarla) che preclude la possibilità di accedere, ai sensi dell’art. 67, co. 1, lett. g) del d. lgs. n. 159 del 2011, a tutti i “contributi, finanziamenti e mutui agevolati ed altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate, concessi o erogati da parte dello Stato, di altri enti pubblici o delle Comunità Europee, per lo svolgimento di attività imprenditoriali”: in tale ambito va ricondotta ogni forma di “esborso da parte dell’Amministrazione”, ivi incluse le somme dovute a titolo di risarcimento del danno patito in connessione all’attività di impresa, anche in caso di sentenza passata in giudicato. In sintesi, l’interdittiva antimafia “non incide sull’obbligazione dell’Amministrazione, bensì sulla “idoneità” dell’imprenditore ad essere titolare (ovvero a persistere nella titolarità) del diritto di credito” (cfr. adunanza plenaria n. 3 del 6 aprile 2018, riportata nell’allegato n. 4).
5.Temine di validità della certificazione. Secondo un orientamento ormai consolidato (confronta da ultimo le sentenze del Consiglio di Stato n. 4121 del 2016 e n. 739 del 2017) gli elementi raccolti alla base dell’informativa prefettizia che accerti il pericolo di infiltrazione mafiosa hanno una validità tendenzialmente indeterminata nel tempo, salvo l’emergere di fatti nuovi di segno contrario in grado di superare gli elementi che hanno giustificato l’emissione del provvedimento interdittivo (nel qual caso, come vedremo infra, deve essere effettuato un aggiornamento dell’istruttoria ed emessa eventualmente un’informativa liberatoria: vedi in tal senso le sentenze del Tar Palermo n. 142 del 2017 e n. 288 del 2018 e la sentenza del Consiglio di stato n. 4938 del 2018)): il termine di 12 mesi indicato dall’art. 86, comma 2, va riferito al valore legale del documento antimafia e quindi deve essere inteso come obbligo per le singole amministrazioni di richiedere nuovamente la documentazione antimafia, una volta trascorsi 12 mesi dalla precedente informativa, al fine di verificare l’attualità dell’esistenza del pericolo di infiltrazioni dell’azienda interessata (per le comunicazioni antimafia, il termine previsto è invece di 6 mesi).
6.Le white list. Per garantire una maggiore efficienza del sistema di verifica preventiva rispetto alle prescrizioni dei protocolli di legalità definiti da molte Amministrazioni, la legge n. 190 del 2012 (art. 1, commi 52 ss) istituisce presso ogni prefettura dell’elenco dei fornitori, prestatori di servizi ed esecutori di lavori non soggetti a tentativo di infiltrazione mafiosa (c.d. white list) al fine di rendere più efficaci i controlli antimafia nei comparti maggiormente a rischio: noli a caldo, movimentazione terra, trasporto e smaltimento rifiuti etc. (sul carattere tassativo di tale elenco vedi la sentenza del Tar Milano n. 170 del 2017); l’iscrizione alla white list equivale a certificazione dell’insussistenza delle cause ostative alla partecipazione alle procedure di affidamento di appalti pubblici ed alla stipula dei relativi contratti (vedi anche il DPCM 18 aprile 2013, in gazzetta ufficiale n. 164 del 2013 e le osservazioni contenute nella segnalazione dell’Anac n. 1 del 2015 e nella sentenza del Tar Catania n. 1723 del 2018). Le imprese sono tenute a comunicare tutte le variazioni dell’assetto proprietario e dei propri organi sociali ai fini delle conseguenti attività di verifica da parte della prefettura (vedi al riguardo anche la sentenza del Consiglio di Stato n. 492 del 2018).
Di recente sono state introdotte disposizioni sull’anagrafe delle imprese che operano nei territori colpiti dagli eventi sismici del 2016 (legge n. 229 del 2016). Sulla rilevanza del meccanismo delle white list al fine di rendere più efficaci i controlli antimafia sulle imprese vedi le considerazioni svolte dal Presidente dell’anticorruzione nel corso di un audizione presso la Commissione parlamentare sui migranti.
7.Il ruolo delle prefetture. L’attività di verifica è affidata alle Prefetture, individuate come l’organismo più idoneo a svolgere un’istruttoria così complessa, supportata dalla Direzione investigativa antimafia (leggi questa scheda) al servizio di tutte le altre Amministrazioni pubbliche, che devono conseguentemente adeguare la propria azione alle risultanze dell’interdittiva, senza poter svolgere alcuna attività discrezionale (vedi sul punto la sentenza del Tar di Genova n. 58 del 2016 e quella del Tar di Reggio Calabria n. 1124 del 2016; sulla competenza della Questura, nella Valle d’Aosta, vedi le considerazioni contenute nella sentenza del Tar di Aosta n. 6 del 2016). L’interdittiva ha di norma una validità superiore ai 12 mesi indicati dall’art. 86 comma 2, del codice antimafia, che si riferisce ai soli casi in cui sia attestata l’assenza di pericolo di infiltrazione mafiosa (in tal senso le sentenze del Consiglio di Stato nn. 4602 e 5256 del 2015, quella del Tar Palermo n. 123 del 2016 e la sentenza n. 716 del 2016 del Tar Reggio Calabria, confermata dal Consiglio di Stato con sentenza n. 1084 del 2017). Sulla necessità di potenziare adeguatamente le prefetture e consentire loro una efficace attività di verifica vedi le considerazioni svolte dal Presidente dell’anticorruzione nel corso dell’audizione presso la Commissione parlamentare sui migranti, sopra citata.
8.Informativa come misura di carattere preventivo. E’ importante evidenziare che siamo in presenza di una misura di carattere preventivo, che prescinde dall’accertamento di eventuali responsabilità penali (pertanto non risulta necessario attendere l’esito finale del procedimento penale: vedi sul punto la sentenza del Tar di Napoli n. 3462 del 2016 che ha respinto la richiesta di sospensiva in attesa della pronuncia della Corte di Cassazione) e che si aggiunge alle misure di prevenzione antimafia di natura giurisdizionale: la logica che ispira il codice antimafia (così come il meccanismo delle white list di cui alla legge 190 del 2012) è infatti quella di prevenire un grave pericolo e non già quella di punire, nemmeno in modo indiretto, una condotta penalmente rilevante. Proprio per la sua natura cautelare e per la sua funzione di massima anticipazione della soglia di prevenzione, secondo l’orientamento consolidato dei giudici amministrativi, l’interdittiva antimafia sfugge alla necessità della preventiva instaurazione di un contraddittorio pieno con il soggetto destinatario: va pertanto esclusa la necessità della comunicazione di avvio del procedimento, in quanto tale adempimento è in contrasto con il carattere riservato ed urgente delle attività di verifica dei tentativi di infiltrazione mafiosa (vedi ad esempio Tar Palermo n. 1638 del 2018, Tar Campania n. 4843 del 2016 e Consiglio di stato n. 1408 del 2018); ciò però non esclude che l’Amministrazione possa adeguatamente valutare le eventuali osservazioni avanzate dai soggetti interessati (sentenza del Consiglio di giustizia amministrativa n. 206 del 2018).
Per l’emanazione dell’interdittiva è sufficiente il “tentativo di infiltrazione” avente lo scopo di condizionare le scelte dell’impresa, anche se tale scopo non si è in concreto realizzato; e ciò in ragione delle peculiarità del fenomeno mafioso, che non necessariamente si concretizza in fatti univocamente illeciti, potendo fermarsi alla soglia dell’intimidazione, dell’influenza e del condizionamento latente di attività economiche formalmente lecite.
Un ruolo essenziale ai fini del lavoro della prefettura è svolto dalla Banca dati nazionale unica della documentazione amministrativa (art. 96 ss del d. lgs. n. 159 del 2011, reso operativo dal Dpcm n. 193 del 2014), che consente all’autorità prefettizia “di avere una cognizione ad ampio spettro e aggiornata della posizione antimafia di una impresa” (sentenza n. 565 del 2017 del Consiglio di Stato), potenziando così l’attività di prevenzione dei tentativi di infiltrazione mafiosa nell’attività di impresa (in tal senso vedi anche le considerazioni contenute nella sentenza n. 4 del 2018 della Corte costituzionale).
Gli elementi posti a base dell’informativa possono anche non essere oggetto di procedimenti penali (vedi la sentenza del Tar Milano n. 1622 del 2016) o, addirittura, possono aver dato luogo ad un proscioglimento in sede penale, laddove dalle motivazioni emerga che titolari, soci, amministratori, direttori generali dell’impresa abbiano comunque subìto un condizionamento mafioso che pregiudichi le libere logiche imprenditoriali. E mentre nel processo penale vigono i più rigidi criteri della prova “oltre il ragionevole dubbio”, in questa fattispecie trova invece applicazione il principio del “più probabile che non”, in base al quale il pericolo di un’infiltrazione mafiosa può essere accertato anche soltanto sulla base di una prova che lo renda probabile, senza che sia necessario raggiungere il massimo grado di certezza dei suoi presupposti (vedi tra le altre la sentenza del Consiglio di stato n. 3173 del 2017). Si tratta di una fattispecie che lascia un ampio margine di discrezionalità all’Amministrazione, che comunque la giurisprudenza ha contribuito a precisare. Come sottolineato dal Consiglio di Stato (sentenza n. 3583 del 2016) tale sistema “non è in contrasto con i principi costituzionali, alla luce dell’esigenza, sottesa alla disciplina delle informazioni antimafia…. di porre un significativo argine preventivo al pernicioso fenomeno del condizionamento mafioso dell’attività economica del Paese” (vedi sul punto anche le sentenze del Consiglio di Stato n. 3576 del 2016 e n. 565 del 2017, quest’ultima riportata nell’allegato n. 3, nonché la sentenza del Tar Napoli n. 1019 del 2018).
9.Le caratteristiche della relazione prefettizia. Il Consiglio di Stato sottolinea innanzitutto l’importanza di una visione d’insieme di tutti gli elementi, raccolti nel corso dell’istruttoria, atti a dimostrare in modo plausibile l’effettiva sussistenza del condizionamento esercitato dai gruppi criminali sulla singola azienda, aldilà del valore da attribuire al singolo accadimento: l’eventuale carenza o l’insufficienza d’un dato non inficia la valutazione complessiva, se compensato dalla presenza di altri che, nel loro insieme, siano precisi e concordanti nel testimoniare il pericolo d’infiltrazione. Spetta al giudice amministrativo, in sede di sindacato di legittimità, valutare la complessiva logicità e coerenza della relazione. Ed analizzando i dati sulle decisioni più recenti di Tar e Consiglio di Stato, relative agli ultimi due anni, si evidenzia che -a differenza del passato – le argomentazioni contenute nelle relazioni prefettizie reggono ora al vaglio del giudice amministrativo nella stragrande maggioranza dei ricorsi discussi.
E’ importante sottolineare che deve essere garantito l’accesso da parte dei diretti interessati alla relazione prefettizia, anche se limitatamente alle parti utili alla loro difesa (cfr. sul punto la sentenza del Consiglio di Stato n. 1995 del 2016, che richiama i motivi di ordine e sicurezza pubblica, di cui al regolamento n. 508 del 1997 del Ministero dell’Interno, che giustificano il mancato accesso al testo integrale della relazione; vedi anche la sentenza del Tar del Lazio n. 7716 del 2016 sul diritto di un’azienda che partecipa ad una gara di appalto di accedere a tutta la documentazione relativa, ivi inclusa l’eventuale interdittiva antimafia a carico di una società concorrente).
10.Gli elementi-spia. Il codice antimafia individua espressamente alcune fattispecie come indicatori della presenza mafiosa: ad esempio la condanna per taluni delitti o la mancata denuncia di delitti di concussione e di estorsione da parte dell’imprenditore, vedi l’art. 84, comma 4, lett. a) e l’art. 91, comma 6. In questi casi (caratterizzati da un particolare interesse delle organizzazioni di stampo mafioso, e che destano maggiore allarme sociale) la presenza di legami con la criminalità organizzata è data per presupposta dal legislatore, salva ovviamente la prova contraria: il Consiglio di Stato (sentenze nn. 981 e 982 del 2017, di riforma delle sentenze del Tar Lazio nn. 8064 e 8059 del 2014) sottolinea infatti anche in questi casi la natura discrezionale dell’attività della prefettura “che deve fondarsi su di un autonomo apprezzamento degli elementi delle indagini svolte, o dei provvedimenti emessi in sede penale…. senza istituire un automatismo tra l’emissione del provvedimento cautelare in sede penale e l’emissione dell’informativa ad effetto interdittivo”. Orientamento ribadito di recente (sentenza Consiglio di Stato n. 1315 del 2017) con riferimento ad un’ipotesi di traffico illecito di rifiuti di cui all’art. 260 del D.L.vo n. 152 del 2006 (vedi anche sentenza del Tar Milano n. 649 del 2017 con riguardo ad un caso di mancata denuncia del reato di estorsione).
Al di là di tali fattispecie, il Consiglio di Stato individua, a solo titolo esemplificativo, un’ampia casistica degli elementi-spia che evidenziano una condizione di potenziale asservimento – o comunque di condizionamento – dell’azienda rispetto alle iniziative della criminalità organizzata di stampo mafioso (qualunque sia la sua denominazione locale): proprio partendo da tale condizione l’attività d’impresa potrebbe essere finalizzata ad agevolare, anche in modo indiretto, le loro attività criminose (vedi sul punto anche la sentenza del Tar Catanzaro n. 1804 del 2016). Occorre infatti per tener conto dei molteplici e sempre nuovi modi in cui la mafia può esercitare il suo condizionamento sull’impresa, anche contro la volontà del singolo. Le organizzazioni criminali, infatti, per rafforzare la propria presenza nel mondo dell’economia e degli appalti, ricorrono spesso a dei prestanome per esercitare di fatto attività imprenditoriali di reinvestimento di proventi illeciti, tentando di aggirare i provvedimenti giudiziali posti a loro carico: a tal fine utilizzano una fitta rete di rapporti sia con soggetti ad esse organicamente legati che con persone che decidono di collaborare per omertà o per timore per la propria sopravvivenza o per quella dell’azienda. Pertanto non solo i soggetti affiliati alla mafia e quelli ad essa contigui ma persino imprenditori soggiogati dalla sua forza intimidatoria e vittime di estorsioni sono passibili di informativa antimafia: l’aspetto centrale della disciplina riguarda appunto non tanto la contiguità o l’affiliazione ma, appunto, il rischio di condizionamento delle scelte societarie derivante dal tentativo di infiltrazione mafiosa (cfr. al riguardo le considerazioni contenute nelle sentenze del Tar Sicilia n. 378 del 2015 e del Tar Napoli n. 4843 del 2016 e in quelle del Consiglio di Stato nn. 670 e 5214 del 2017).
Conseguentemente, la disciplina molto scarna dettata dal codice antimafia lascia volutamente un ampio margine di apprezzamento al Prefetto proprio per l’impossibilità di indicare ex ante tutte le modalità con cui i tentativi di infiltrazione mafiosa si realizzano nella pratica e le diverse forme utilizzate dalle organizzazioni criminali per moltiplicare i loro illeciti profitti: una tipizzazione nella norma lascerebbe altrimenti la possibilità alle organizzazioni criminali di aggirare con facilità le disposizioni di legge (vedi al riguardo anche la sentenza del Tar Napoli n. 1017 del 2018).
La relazione può fondarsi anche su un unico elemento presuntivo, purché non in contrasto con altro ragionamento presuntivo di segno contrario, atto a dimostrare, per la sua attualità, univocità e gravità, il pericolo concreto di infiltrazione mafiosa nell’impresa.
11.Una ricognizione della casistica. In questo contesto, una particolare rilevanza assumono innanzitutto le circostanze desumibili dalle sentenze di condanna, anche non definitiva, confermata in appello, o di rinvio a giudizio per particolari delitti precisati dall’art. 84 del Codice antimafia, in quanto tali imputazioni hanno anche valore sintomatico dell’inquinamento della criminalità organizzata: in caso di condanna l’interdittiva antimafia scatta in modo automatico (cfr. sentenza del Consiglio di Stato n. 4555 del 2016), mentre il semplice deferimento all’Autorità giudiziaria può comunque costituire un elemento, all’interno delle valutazioni della Prefettura, dei tentativi di infiltrazione da parte della criminalità organizzare (vedi sentenza del Tar Catanzaro n. 1801 del 2016). Il giudice amministrativo non può sostituirsi a quello penale nella valutazione dei fatti penalmente rilevanti e nel vaglio delle fonti di prova (vedi la sentenza del Tar di Napoli n. 107 del 2016, confermata dal Consiglio di Stato con sentenza n. 3583 del 2016). Tali sentenze assumono valore ai fini dell’interdittiva “anche se risalenti nel tempo”, quando gli elementi raccolti dal Prefetto siamo sintomatici di un condizionamento attuale dell’attività dell’impresa: infatti il mero decorso del tempo non smentisce, da solo, la persistenza di legami con organizzazioni mafiose, tenuto anche conto della natura stessa di tali organizzazioni criminali, caratterizzate dalla durevolezza dei rapporti che esse instaurano con il mondo imprenditoriale, in assenza di fatti positivi idonei a dimostrare un nuovo e consolidato operare dei soggetti coinvolti (vedi sentenze del Tar Napoli nn. 3847 e 4274 del 2016): occorre, pertanto, che sussistano elementi da cui si ricavi che i legami con organizzazioni mafiose, pur risalenti nel tempo, siano ancora connotati da attualità (in questo senso cfr. la sentenza del Consiglio di Stato n. 441 del 2017, di riforma della sentenza del Tar Veneto n. 608 del 2016, che evidenzia “l’indiscutibile linea di continuità diretta ed immediata” tra la vecchia gestione e la nuova; vedi anche n. 1681 del 2016 e le sentenze del Tar di Napoli nn. 2104 e 4850 del 2016; vedi anche gli elementi raccolti della prefettura a conferma di una precedente interdittiva, richiamati dalla sentenza del Tar Calabria n. 1330 del 2016, confermata dalla sentenza del Consiglio di Stato n. 1131 del 2017). Anche in caso di assoluzione, le motivazioni addotte dal giudice penale potrebbero essere comunque utilizzate per confermare la validità dell’impianto accusatorio dell’interdittiva (vedi al riguardo la sentenza del Tar Catanzaro n. 1619 del 2016 e quella del Consiglio di Stato n. 4030 del 2016).
L’esito assolutorio in sede penale (o una diversa valutazione in sede penale degli elementi a carico dell’imputato) potrà ovviamente influire sulla sorte dell’interdittiva nel caso in cui non sussistano altri elementi atti a dimostrare l’esistenza del condizionamento mafioso (vedi ad esempio la sentenza del Tar di Catania n. 761 del 2016 di annullamento dell’interdittiva prefettizia in quanto l’originario quadro indiziario non era stato confermato dai successivi accertamenti del giudice ordinario; cfr. anche la sentenza del Consiglio di Stato n. 200 del 2015 e le sentenze del Tar di Salerno n. 1014 del 2016); al contrario, proprio l’esistenza di altri elementi ha indotto il Consiglio di Stato ad affermare la legittimità dell’informativa antimafia (sentenza n. 319 del 2017 di riforma della sentenza del Tar di Napoli n. 2732 del 2016; vedi anche la sentenza del Consiglio di stato n. 1441 del 2017). Le nuove acquisizioni giudiziarie potranno portare, su richiesta dell’interessato, anche ad una revisione della prima interdittiva (vedi sul punto le sentenze del Tar Campania n. 2731 del 2016, del Consiglio di Stato n. 3583 del 2016 e del Tar Palermo n. del 2016); sussiste comunque l’obbligo da parte della prefettura, ai sensi dell’art. 91, comma 5, del codice antimafia, di procedere al riesame della informativa antimafia in caso di circostanziata richiesta di aggiornamento da parte del soggetto interessato (cfr. le sentenze del Tar Campania n.3490 del 2016, del Tar Roma nn. 9548 del 2016 e 3527 del 2017 e del Tar Palermo n. 288 del 2018 e del Consiglio di stato n. 4620 del 2018).
Peraltro, anche il non luogo a procedere per prescrizione del reato non è sufficiente a smentire la validità dei fatti addebitati (cfr. le sentenze del Consiglio di Stato n. 681 del 2016 e n. 2756 del Tar di Napoli), laddove dalle motivazioni della sentenza emergano elementi in ordine al pericolo di infiltrazione da parte delle organizzazioni criminali (vedi in tal senso la sentenza del Tar Milano n. 61 del 2017).
Il procedimento penale deve comunque riguardare un soggetto che svolga funzioni di rilievo all’interno della società (cfr. sul punto le sentenze del Tar Lazio nn. 2279 e 2882 del 2016).
Assumono altresì rilevo anche le misure di prevenzione antimafia per i delitti espressamente elencati dall’art. 51, comma 3-bis, c.p.p., senza cioè che siano necessari ulteriori accertamenti istruttori a supporto della tesi del pericolo di infiltrazione mafiosa (sul punto vedi la sentenza del Consiglio di Stato n. 1632 del 2016, di riforma della sentenza del Tar di Napoli n. 3661 del 2015, relativa ad un’interdittiva basata su di un traffico illecito di rifiuti, proprio in considerazione del disvalore sociale e della portata del danno ambientale propri di tale reato; vedi anche la sentenza dello stesso Consiglio di Stato n. 1109 del 2017).
Ma alla base dell’interdittiva assumono in generale valore tutti i provvedimenti del giudice penale, civile, amministrativo, contabile, tributario, dalla cui motivazione emergano elementi di condizionamento delle associazioni malavitose sull’attività dell’impresa oppure agevolazioni, aiuto, supporto, anche solo logistico, che questa abbia fornito a tali associazioni (vedi ad esempio la sentenza n. 2683 del 2016 del Consiglio di Stato, che ha riformato la precedente decisione del Tar Calabria n. 1722 del 2015, fondandosi anche su alcuni passaggi di una sentenza della Corte d’appello; vedi anche la sentenza del Tar Liguria n. 1085 del 2016, confermata da sentenza del Consiglio di Stato n.672 del 2017; cfr. anche la sentenza del Consiglio di Stato n. 4556 del 2016, con riguardo agli elementi desunti dalla prefettura dalle motivazioni di un decreto di perquisizione; vedi, più di recente, la sentenza dello stesso Consiglio di stato n. 4278 del 2018). Anche una condanna per il reato di “voto di scambio”, senza l’aggravante mafiosa, può essere considerata sintomatica della disponibilità a venire a patti con un gruppo criminale, ed ottenere così benefici in cambio dell’appoggio elettorale (sentenza del Consiglio di Stato n. 3574 del 2016).
12.Sui rapporti di parentela. Un aspetto specifico riguarda la valutazione dei rapporti di parentela, che di per sé non costituiscono un elemento di prova, in assenza di altri elementi che evidenzino l’esistenza di una effettiva ‘disponibilità’ verso le attività dei gruppi criminali sotto il profilo finanziario, commerciale, lavorativo etc: e di essi si deve dar conto nel contesto motivazionale del provvedimento interdittivo (vedi in tal senso le sentenze del Tar Palermo n. 1842 del 2016, del Tar Catania nn. 2220, 2286 e 3426 del 2016, del Tar Napoli n. 191 del 2017, del Tar Bari n. 1804 del 2018, del Consiglio di stato nn. 2314 e 4000 del 2017 e le sentenze del Consiglio per la giustizia amministrativa per la regione siciliana nn. 220 del 2016 e nn. 16 e 19 del 2017). Peraltro tali rapporti di parentela possono ben essere rilevanti ai fini della dimostrazione logica del condizionamento mafioso nei casi in cui circostanze obiettive evidenzino che l’impresa abbia una conduzione collettiva e una regìa familiare ovvero che le decisioni sulla sua attività siano influenzate, anche indirettamente, dalla mafia attraverso la famiglia (vedi le sentenze del Tar Napoli n. 4294 del 2016 e del Tar Liguria n. 1085 del 2016): come sottolineato dal Consiglio di Stato (sentenze n. 3566 del 2016 e n. 5410 del 2018; per approfondimenti su quest’ultima clicca qui) organizzazioni mafiose tentano di aggirare la barriera dell’interdittiva inserendo nell’azienda persone incensurate ma controllabili, segnatamente attraverso il rapporto di parentela, in ragione proprio dei fortissimi vincoli familiari che caratterizzano tali organizzazioni criminali. Tali circostanze obiettive possono essere riscontrate, ad esempio, in un rapporto di convivenza (come nei casi esaminati nelle sentenze nn. 1743 e 3754 del 2016 del Consiglio di Stato), nella condivisione di aspetti della vita quotidiana (sentenza Tar Bari n. 1084 del 2018), nella pluralità degli intrecci familiari in aree caratterizzate da un forte radicamento delle organizzazioni criminali (sentenza n. 5330 del 2016 del Tar Campania), ovvero nella giovane età e conseguente scarsa esperienza della nuova amministratrice unica (sentenza del Consiglio di Stato n. 3566 del 2016; vedi anche la sentenza dello stesso Consiglio di stato n. 4683 del 2018) oppure nella cointeressenza di interessi economici (vedi sul punto le sentenze n. 1977, n. 2232 e n. 5513 del 2016 e n. 1963 del 2017 del Consiglio di Stato; quelle del Tar di Ancona n. 33 del 2016, del Tar di Palermo nn. 652 e 1794 del 2016, del Tar di Potenza n. 307 del 2016, del Tar di Reggio Calabria nn. 285, 522 e 1124 del 2016, del Tar Catanzaro n. 2519 del 2016, del Tar Parma n. 7 del 2017, del Tar Bari n. 1084 del 2018, del Consiglio di giustizia amministrativa n. 361 del 2018; vedi anche la sentenza del Consiglio di Stato n. 905 del 2017, di riforma della sentenza del Tar Torino n. 729 del 2016, sulla nozione di “interessi comuni”), ovvero nel coinvolgimento nei medesimi fatti etc (cfr. anche le sentenze del Tar di Napoli n. 2738 e 2743 del 2016): ad esempio, nel caso esaminato dal Consiglio di Stato con la sentenza n. 3312 del 2016 (di riforma della sentenza del Tar Catanzaro n. 720 del 2015) viene sottolineato che il gruppo familiare svolge la medesima attività imprenditoriale in modo coordinato, con cointeressenze societarie tra i vari fratelli, spostamenti di quote tra parenti, partecipazioni societarie nelle diverse società variamente denominate, ma comunque riconducibili alla famiglia (e alcune delle quali ubicate nello stesso immobile). Da parte sua, il Tar Milano sottolinea la sostanziale continuità nella gestione dell’attività imprenditoriale nella nuova società costituita dai figli subito dopo che la società del padre era stata colpita da informativa antimafia, documentata anche dal passaggio di mezzi e personale dall’una all’altra (sentenza n. 58 del 2017).
La necessità di raccogliere ulteriori e significativi elementi di riscontro, rispetto all’esistenza del mero legame familiare, sull’intreccio di relazioni di cointeressenze volte a proseguire nell’esercizio delle attività di famiglia, illecite e colluse con la criminalità organizzata, in elusione della normativa antimafia, e tali perciò da rendere concreto ed attuale il pericolo di condizionamento mafioso, è stata più volte riaffermata dai giudici amministrativi (cfr. sentenza del Consiglio di giustizia amministrativa n. 190 del 2016, che ha accolto nel caso specifico il ricorso dell’azienda interessata; nello stesso senso lle sentenze del Tar Genova n. 998 del 2016 e del Tar Toscana n. 910 del 2018; vedi anche le considerazioni contenute nella sentenza del Tar di Reggio Calabria n. 241 del 2017, che ha modificato il precedente orientamento di cui alla sentenza n. 1065 del 2016; leggi anche la sentenza del Consiglio di Stato n. 1082 del 2017, di riforma della sentenza del Tar Catanzaro n. 1078 del 2016, che ha giudicato insufficienti gli elementi aggiuntivi addotti dalla Prefettura).
E la mancata adozione di una misura di prevenzione, in assenza del requisito della pericolosità sociale attuale, non esclude che il medesimo soggetto possa attualmente condizionare le scelte di una determinata impresa tramite una presenza attiva nella gestione dell’impresa stessa (vedi sentenza del Tar di Napoli n. 2756 del 2016). La rilevanza di tali elementi si spiega con la particolare organizzazione delle mafie, fondate appunto sulla struttura di un clan, nel quale l’influenza del “capofamiglia” assume particolare importanza.
13.Sui rapporti di frequentazione, conoscenza, amicizia etc. Possono assumere rilievo, ai fini dell’interdittiva antimafia, anche le relazioni dei titolari, soci, amministratori, dipendenti dell’impresa con soggetti raggiunti da provvedimenti di carattere penale o da misure di prevenzione antimafia (vedi sentenze del Tar Catanzaro n. 1808 del 2016, del Tar Napoli n. 491 del 2017 e del Consiglio di Stato n.2590 del 2017); la ricognizione della prefettura può essere estesa a tutti i soggetti che possono determinare in qualsiasi modo le scelte o gli indirizzi dell’impresa (cfr. al riguardo la sentenza del Tar Palermo n. 1621 del 2016): tali relazioni non devono essere frutto di casualità o di necessità (vedi sul punto le sentenze del Tar Lazio n. 5880 del 2016, del Tar Bologna n. 355 del 2016, del Tar di Milano n. 976 del 2016, del Tar di Napoli n. 103 del 2016 e del Consiglio di giustizia amministrativa della regione Sicilia n. 252 del 2016; cfr anche la sentenza del Consiglio di Stato n. 2453 del 2016 sulla frequentazione di un pregiudicato successivamente divenuto collaboratore di giustizia); ciò si verifica quando tali “contatti” non hanno carattere episodico ma sono invece frequenti (vedi le sentenze del Tar Reggio Calabria n. 927 del 2016 e del Consiglio di Stato n. 2343 del 2018), e diventano un segnale, sempre secondo la logica del “più probabile che non”, che l’imprenditore cerchi un dialogo o il consenso dei gruppi criminali per ricavarne vantaggi reciproci (cfr. sul punto la sentenza n. 2554 del 2016 del Consiglio di Stato sull’esistenza di una “significativa commistione e una rilevante comunanza di affari” con altra impresa legata a clan mafiosi; vedi anche la sentenza del Tar Napoli n. 3158 del 2016 sull’effettivo pericolo di condizionamento esercitato dal clan dei casalesi sull’assetto proprietario, sulla gestione societaria e sull’attività operativa dell’impresa oggetto di interdittiva; vedi anche la sentenza n. 46 del 2017 dello stesso Tar Napoli, fondata sulla qualifica di “imprenditore contiguo e subordinato all’associazione camorristica” quale emerge dalle sentenze dei giudici penali; in senso contrario, si esprime invece il Tar di Brescia – sentenza n. 1741 del 2015, oggetto peraltro di ordinanza sospensiva da parte del Consiglio di Stato – sulla mancata emersione dalle indagini giudiziarie di elementi atti a dimostrare il coinvolgimento dell’azienda in attività di stampo mafioso); ad esempio, nel caso delle sentenze del Consiglio di Stato n. 3008 del 2016 e n. del 2017 – che ha riformato la sentenza del Tar di Milano n. 976 del 2016 – si pone in risalto la richiesta di “protezione” avanzata a soggetti legati a clan malavitosi proprio in ragione della compiacenza e contiguità all’organizzazione criminale. Ed il fatto di aver subito estorsioni e rapine da altri gruppi criminali non costituisce di per sé un elemento sufficiente per scagionare l’impresa colpita da interdittiva in presenza di altri indizi a carico (cfr. in tal senso le sentenze del Tar Reggio Calabria n. 664 del 2016 – confermata dal Consiglio di Stato con sentenza n. 469 del 2017 – e del Consiglio di Stato n. 5197 del 2015). Sulla possibilità di utilizzare, ai fini dell’emanazione di un’interdittiva antimafia, la mancata denuncia del reato di estorsione vedi le considerazioni contenute nelle sentenze del Tar Campania n. 209 – confermata dal Consiglio di stato con sentenza n. 669 del 2017 – e n. 5330 del 2016.
Oggetto dell’informativa della prefettura possono essere i rapporti tra un’azienda con soggetti appartenenti alla criminalità organizzata nel caso in cui in cui essi siano plurimi e significativi (cfr. sentenza del Consiglio di Stato n. 4486 del 2016, di riforma della precedente sentenza del Tar Lombardia). E la dissociazione dagli ambienti malavitosi (evidenziata anche da testimonianza nei confronti di soggetti imputati per reati di mafia o dalla partecipazione ad iniziative antiracket) non è sufficiente in presenza di altri elementi atti a suffragare la volontà di non recidere i rapporti con la realtà criminale di origine (sentenza del Consiglio di Stato n. 164 del 2017).
In ogni caso, resta fermo il criterio dell’attualità del condizionamento mafioso: vedi a tale riguardo la sentenza del Consiglio di Stato n. 463 del 2016, che evidenzia la mancata valutazione da parte della prefettura delle più recenti informative delle forze di polizia e della magistratura (sulle conseguenze dell’annullamento dell’interdittiva cfr. la sentenza del Tar Firenze n. del 2016).
14.I legami tra più società. Vanno altresì valutati con attenzione i casi in cui una società si avvale della collaborazione continuativa (in termini di mezzi e personale) di un’altra azienda colpita da informazione interdittiva (vedi in tal senso le sentenze del Consiglio di Stato n. 3890 del 2016 e del Tar Reggio Calabria n. 1221 del 2016: quest’ultima sottolinea l’importanza dei protocolli di legalità volti ad assicurare la massima trasparenza anche per quanto riguarda eventuali subappalti; nello stesso senso anche la sentenza del Consiglio di stato n. 1110 del 2018). Assumono importanza a tal fine gli elementi volti a dimostrare la “continuità” tra più aziende (vedi su tale aspetto la sentenza del Consiglio di Stato n. 4228 del 2016, che ha riformato la precedente sentenza del Tar Calabria sulla base dell’esistenza di un contratto di affitto e di un contratto di lavoro, oltre che di una pluralità di relazioni e parentele con esponenti di una cosca mafiosa; cfr. anche la sentenza del Consiglio di Stato n. 4555 del 2016, che sottolinea tra gli altri elementi a dimostrazione dell’intreccio di interessi, il mancato pagamento di alcune attrezzature acquistate da un’altra azienda colpita da interdittiva); occorre considerare infatti con la dovuta attenzione il fenomeno delle continue mutazioni societarie effettuate proprio in funzione elusiva della normativa antimafia: vengono cioè utilizzate preesistenti società inattive, cui vengono cedute parti di aziende oggetto di informativa antimafia, proprio al fine di partecipare a gare e appalti per trasformarle subito dopo in società con nomi, sedi e rappresentanti diversi (vedi sentenza del Consiglio di Stato n. 4330 del 2016). Va inoltre valutato il caso delle cessioni “simulate”, volte ad aggirare una informativa antimafia emessa dalla prefettura (vedi ad esempio la sentenza del Consiglio di Stato n. 983 del 2017).
Il Consiglio di Stato sottolinea a tale proposito l’esigenza che ogni impresa verifichi sempre l’affidabilità delle imprese con cui si intrattengono rapporti commerciali (vedi sentenza n. 1991 del 2017, di riforma della sentenza del Tar Bologna n. 1047 del 2015, che aveva invece valorizzato i successivi comportamenti dell’azienda voli a interrompere i rapporti instaurati con ditte raggiunte da interdittive antimafia); ciò vale in particolare nei casi di appalto in zone ad alto pericolo di infiltrazione delle organizzazioni di stampo mafioso (sentenza Consiglio di stato n. 3576 del 2016). Vedi al riguardo anche la sentenza del Tar Palermo n. 1588 del 2016 con la quale invece è stata annullata l’interdittiva proprio in considerazione del carattere episodico e marginale dei rapporti economici intercorsi con alcune aziende destinatarie di informazioni antimafia atipiche. Ed una nuova società può essere costituita proprio al fine di eludere le misure interdittive già comminate ad altra azienda (vedi sul punto la sentenza del Tar Perugia n. 549 del 2016).
Recentemente il Consiglio di Stato si è pronunciato sulle c.d. “informative a cascata”, cioè sulla possibilità di estendere l’utilizzo di un’informativa antimafia legittimamente emessa nei confronti di un’azienda anche nei confronti di un’altra impresa socia della prima (ad esempio in un consorzio di imprese). Il massimo giudice amministrativo – sciogliendo anche in questo caso i problemi emersi in sede giurisprudenziale (vedi per tutte la sentenza del Tar Roma n. 11249 del 2015) – sottolinea a tale riguardo la necessità che i rapporti tra le due imprese non siano episodici, ma siano invece stabili e continuativi, in quanto natura, consistenza e contenuti delle modalità di collaborazione tra le due imprese devono essere idonei a rivelare il carattere illecito dei legami stretti tra i due operatori economici (sentenza n. 2774 del 2016, di riforma della sentenza n. 8690 del 2015 del Tar Roma – orientamento confermato dalla successiva sentenza n. 1103 del 2017; vedi anche, in attuazione di tale principio, la sentenza del Tar di Catania n. 2750 del 2016, la cui esecutività è stata peraltro sospesa con ordinanza n. 765 del 2016 del Consiglio per la giustizia amministrativa per la regione siciliana). Il Tar Emilia Romagna pone in risalto, a tale proposito, il fatto che due amministratori della società oggetto della nuova interdittiva erano stati amministratori delle due società in passato colpite da analogo provvedimento: ed il fatto che attualmente esse siano in amministrazione giudiziaria non consente di escludere che le infiltrazioni mafiose si siano già verificate (sentenza n. 1027 del 2016). Su un caso di assenza dei presupposti individuati dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato vedi invece la sentenza del Tar Roma n. 4778 del 2017.
15.Le modifiche anomale nella struttura e nella gestione dell’impresa. Il Consiglio di Stato pone un’attenzione particolare alle variazioni nella struttura dell’impresa (ad esempio le sostituzioni negli organi sociali e nella rappresentanza legale della società, gli spostamenti della sede legale od operativa in zone apparentemente “franche” dall’influsso mafioso, gli aumenti di capitale sociale finalizzati a garantire il controllo della società sempre da parte degli stessi soggetti etc) se finalizzate ad eludere la normativa sulla documentazione antimafia, a dissimulare così il reale assetto gestionale e nascondere la realtà effettiva dell’influenza mafiosa, diretta o indiretta. Ad esempio, un contratto di affitto di ramo di azienda con altra società, già destinataria di altro provvedimento interdittivo (con il quale viene acquisito l’intero complesso di beni e attrezzature, le abilitazioni necessarie per esercitare le attività di impresa, oltre ai contratti di lavoro relativi a diversi dipendenti e appalti e ai i segni distintivi della medesima impresa) è considerato elemento valido a giustificare una continuità gestionale tra le due società (sentenza del Consiglio per la giustizia amministrativa n. 206 del 2018); così la perdita della carica di amministratore di una società, affidata peraltro a familiari, da parte di un soggetto che mantiene il ruolo di socio accomodante, lascia presumere che il controllo dell’azienda rimanga nelle sue mani (sentenza del Consiglio di Stato n. 1443 del 2017). Lo stesso Consiglio di Stato (sentenza n. 1846 del 2016, di riforma della sentenza del Tar di Napoli n. 5310 del 2015), afferma la legittimità dell’informativa prefettizia, in quanto la cessione delle quote societarie da parte del titolare – figlio convivente con un soggetto condannato in via definitiva per associazione di stampo mafioso – era avvenuta solo dopo la prima informativa prefettizia e a favore di altra persona da tempo consocio dell’azienda (su altri casi di cessione strumentale dell’azienda o di quote di essa vedi le sentenze del Tar di Palermo n. 817 del 2016, del Consiglio di Stato n. 3754 del 2016, del Tar di Catanzaro n. 556 del 2016 e del Tar Reggio Calabria n. 1220 del 2016; sulle variazioni dell’assetto proprietario al fine di schermare il pregresso quadro decisionale ritenuto contiguo ad interessi di sodalizi criminali vedi le considerazioni contenute nella sentenza del Tar Campania n. 5331 del 2016). Anche l’adozione di un nuovo modello organizzativo, di gestione e controllo e di un codice etico e l’ingresso nella società di altri soggetti può non essere sufficiente, in presenza di altri elementi che confermino il pericolo di infiltrazioni mafiose nell’azienda (sentenze del Tar Milano n. 887 del 2017 e del Consiglio di Stato n. 5410 del 2018, sopra citata; vedi anche le considerazioni contenute nella sentenza del Consiglio di stato n. 1110 del 2018 con riguardo alla decisione della prefettura di accogliere la seconda, ulteriore, istanza di aggiornamento dell’informazione antimafia solo una volta riscontrati reali segnali di discontinuità rispetto all’assetto societario esistente alla data della prima interdittiva ed a quella della sua conferma).
Analogamente possono aver rilevo alcune vicende anomale nella concreta gestione dell’impresa, come, ad esempio, l’esistenza delle c.d. teste di legno nelle cariche sociali (vedi ad esempio la sentenza del Consiglio di Stato n. 3309 del 2016) o di sedi legali fantasma o ubicate presso luoghi dove invece hanno sede uffici di altre imprese colpite da antimafia; oppure la presenza sul cantiere di soggetti affiliati alle associazioni mafiose; o il ricorso, ad esempio con il subappalto, ad altre imprese controllate dai gruppi mafiosi; o, ancora, ai rapporti con politici locali collusi con la mafia o addirittura incandidabili, etc.
Un altro indizio significativo è rappresentato dall’assunzione di un numero elevato di persone con precedenti penali gravi (cfr. la sentenza del Tar di Perugia n. 327 del 2016, la sentenza del Tar Catanzaro n. 1282 del 2016 e la sentenza n. 44 del 2016 del Consiglio per la giustizia amministrativa per la regione siciliana; vedi anche la sentenza del Consiglio di Stato n. 3008 del 2016 sullo scambio di dipendenti tra più società colpite da interdittiva): Il condizionamento mafioso si può infatti desumere anche dall’assunzione o dalla presenza di dipendenti aventi precedenti legati alla criminalità organizzata, pur con mansioni esecutive e quindi in assenza di specifici riscontri oggettivi sull’influenza delle scelte dell’impresa. Le imprese che hanno rapporti con la Pubblica amministrazione, infatti, “devono garantire la massima affidabilità, non solo nella selezione di amministratori e soci, ma anche dei dipendenti, e devono vigilare affinché nella loro organizzazione non vi siano dipendenti risultati contigui al mondo della criminalità organizzata” (cfr sentenza del Consiglio di Stato n. 3299 del 2016, di riforma di una sentenza del Tar di Reggio Calabria). Se si tratta di rapporti di lavoro non occasionali, ma reiterati nel tempo, ben può la prefettura considerarli nell’ambito degli elementi a carico dell’azienda interessata (vedi sul punto la sentenza del Consiglio di Stato n. 4201 del 2016). Come sottolineato recentemente dallo stesso Consiglio di stato, per le aziende che intrattengono rapporti con la Pubblica amministrazione è essenziale vigilare affinché nella loro organizzazione non vi siano dipendenti contigui al mondo della criminalità organizzata: la presenza di “infiltrati”, utilizzata dalla mafia per controllare o guidare dall’esterno l’impresa, così come la presenza di dipendenti aventi precedenti legati alla criminalità organizzata può rappresentare un elemento per giustificare provvedimenti interdittivi (sentenza n. 5410 del 2018, già citata).
Si tratta in ogni caso di accertamenti da effettuare con estremo rigore, tenendo conto anche di eventuali nuovi fatti oggettivamente rilevanti di segno contrario, rispetto ai quali c’è comunque il diritto dell’azienda interessata di richiedere il riesame da parte della prefettura, ai sensi dell’art. 91, comma 5 del codice antimafia (vedi in tal senso la sentenza del Tar Napoli n. 2975 del 2016 che ha invitato l’Amministrazione a valutare le novità intervenute nella struttura gestionale dell’impresa; e la prefettura ha adempiuto ad emanare un nuovo provvedimento: vedi ordinanza del Tar Napoli n. 1578 del 2017. Cfr. anche le sentenze dello stesso Tar n. 3235 del 2016 e n. 192 del 2017 e quella del Tar Palermo n. 1324 del 2016); e il riesame da parte della prefettura non può essere procrastinato illimitatamente, anche in assenza di un termine perentorio fissato dalla legge: in caso di circostanze sopravvenute costituenti elementi di novità rispetto al quadro indiziario precedentemente considerato la prefettura dovrà completare l’istruttoria entro 45 giorni, ulteriormente prorogabili per 30 giorni, dall’istanza di aggiornamento (cfr. ad esempio le sentenze del Tar Lazio nn. 9548 del 2016 e 3527 del 2017); il nuovo provvedimento deve essere adeguatamente motivato, al fine di valutare le circostanze sopraggiunte invocate dall’azienda interessata (vedi sentenza del Tar Reggio Calabria n. 1118 del 2016). Ad esempio, in una decisione del Tar si dà risalto alla cessazione anticipata del contratto di affitto d’azienda con un’impresa legata ad esponenti della criminalità organizzata: la permanenza di un condizionamento mafioso andrebbe in tal caso motivata con ulteriori elementi (sentenza del Tar di Napoli n. 1209 del 2016). Nello stesso senso, la sentenza del Tar Milano n. 649 del 2017, che pone in risalto le significative novità intervenute nella governance dell’azienda oggetto di una precedente interdittiva (ed in particolare la revoca di tutte le deleghe in precedenza conferite ad un soggetto contiguo alla criminalità organizzata) sono state giudicate idonee a sterilizzare la sua l’influenza su aspetti determinanti della gestione societaria; conseguentemente la prefettura deve effettuare una ulteriore istruttoria al fine di individuare altri elementi che eventualmente giustifichino l’adozione di una nuova interdittiva. Ed il Tar Palermo (sentenza n. 288 del 2018) ha annullato l’interdittiva antimafia confermativa, in quanto non erano state adeguatamente considerate le novità intervenute nel periodo successivo alla prima informativa, ad esempio con riguardo alla collaborazione prestata nell’ambito di alcune inchieste giudiziarie.
Analogamente, la prefettura è obbligata ad effettuare tutti gli accertamenti di rito e a rispondere nei termini previsti dalla legge anche sulle richieste di iscrizione alla white list (sentenza Tar Reggio Calabria n. 1001 del 2016).
16.Sugli effetti delle interdittive antimafia. Chiamato a pronunciarsi sul ricorso di una società colpita da interdittiva antimafia, il Consiglio di Stato in adunanza plenaria – seduta del 6 aprile 2018 – ha colto l’occasione per un ulteriore approfondimento in ordine alla natura ed agli effetti dei provvedimenti assunti dalle prefetture nei confronti delle aziende collegate alle organizzazioni criminali.
In particolare, il massimo organo della giustizia amministrativa ha affermato che l’interdittiva antimafia determina una particolare forma di incapacità, sia pure temporanea (in quanto un successivo provvedimento dell’autorità amministrativa competente potrebbe revocarla) che preclude all’azienda, ai sensi dell’art. 67, co. 1, lett. g) del Codice antimafia, la possibilità di accedere a tutti i “contributi, finanziamenti e mutui agevolati ed altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate, concessi o erogati da parte dello Stato, di altri enti pubblici o delle Comunità Europee, per lo svolgimento di attività imprenditoriali”: in tale ambito va ricondotta ogni forma di “esborso da parte dell’Amministrazione”, ivi incluse le somme dovute a titolo di risarcimento del danno patito in connessione all’attività di impresa, anche in caso di sentenza passata in giudicato.
17.Risarcimento del danno. L’annullamento di una interdittiva antimafia, da parte del giudice amministrativo ovvero in autotutela, può determinare anche un’azione di risarcimento del danno da parte dell’azienda interessata, in termini di pregiudizio all’immagine, di credito commerciale oltre che di capacità di guadagno che si produce nel periodo di efficacia dell’interdittiva. Al riguardo, la consolidata giurisprudenza del Consiglio di stato esclude in primo luogo la responsabilità della stazione appaltante, anche nel caso di ricorso alla certificazione antimafia al di fuori dei casi in cui tale richiesta è obbligatoria (vedi ad esempio la sentenza del Consiglio di stato n. 4279 del 2018): dato il carattere vincolato dell’interdittiva emessa dalla prefettura, non ci sono infatti margini di discrezionalità in ordine all’adozione o meno del relativo atto amministrativo (per il caso della c.d. “informativa atipica” vedi le considerazioni contenute nella sentenza del Consiglio di stato n. 4922 del 2018). Con riguardo alle responsabilità della prefettura, il massimo organo amministrativo ribadisce la necessità da parte del ricorrente di dimostrare il dolo o la colpa dell’Amministrazione, che si concretizza quando il giudizio sul tentativo di infiltrazione mafiosa dell’impresa si basa su indici carenti ed equivoci (vedi in particolare sentenza del Consiglio di stato n. 3707 del 2015).
In attuazione di tali principi, il Tar Milano ha accolto la richiesta di risarcimento danni di una società (con riferimento alla mancata percezione dell’utile correlato al valore residuo dei contratti risolti in conseguenza dell’interdittiva antimafia), dopo che lo stesso giudice amministrativo aveva annullato l’interdittiva antimafia; il Tar sottolinea che nel caso in questione l’Amministrazione si era discostata dai canoni ordinari di diligenza, valorizzando sia dati istruttori non sussistenti (un’interdittiva a carico di un’altra società ad essa legata da rapporti commerciali, ma già all’epoca oggetto di revisione da parte della prefettura), sia un solo elemento indiziario, che nella sua unicità non si prestava a comporre quel quadro di indizi gravi, precisi e concordanti richiesti dalla legge: nelle motivazioni si parla di ”negligenza inescusabile, anche considerando che la difesa della parte resistente non ha indicato concreti elementi per ritenere giustificabile l’errore stesso” (sentenza n. 1993 del 2018).
Occorre naturalmente che vengano puntualmente dimostrati i danni (patrimoniali e d’immagine) di cui i soggetti interessati chiedono il risarcimento (cfr. sentenza del Consiglio di stato n. del 2018, di riforma della precedenza sentenza del Tar Napoli).
18.Alcuni dati quantitativi. Dalla Relazione del luglio 2018 della Direzione investigativa antimafia, emerge l’ampio utilizzo dello strumento della interdittiva antimafia da parte delle prefetture del Sud Italia. Su 625 provvedimenti adottati nell’intero 2017, risulta in cima a questa classifica la Calabria (195 interdittive), la Sicilia (160), la Campania (67); rilevante l’uso dell’interdittiva anche in alcune regioni del Nord Italia: Emilia -Romagna (57 provvedimenti), Piemonte (39) e Lombardia (29).
19.Considerazioni finali. L’esperienza concreta di applicazione della disciplina sulla certificazione antimafia si è rivelata particolarmente utile a contrastare le infiltrazioni mafiose nell’economia, a partire dall’affidamento di appalti pubblici di particolare rilievo, come quelli concernenti Expo 2015. La stretta cooperazione tra magistratura (la Dia in particolare), forze di polizia e Amministrazioni competenti ha permesso di intensificare le attività di verifica su appalti, ivi inclusi i controlli nei cantieri sulle imprese che eseguono in concreto i lavori, pur con i limiti – connessi alla rilevanza, per numero, tipologie di imprese, natura e disciplina giuridica dei soggetti operanti all’interno dei cantieri – emersi anche in occasione delle audizioni presso la Commissione di inchiesta antimafia del Commissario per Expo e del Prefetto di Milano. L’esperienza acquisita in quella circostanza ha condotto comunque ad esportare il sistema sperimentato con l’Expo di Milano agli appalti e commesse pubbliche per la ricostruzione nelle zone terremotate del Centro-Italia, sempre con l’obiettivo di coniugare la rapidità nell’istruttoria delle interdittive antimafia con l’indagine approfondita delle singole situazioni, come testimoniato anche dalle relazioni periodiche della Direzione investigativa antimafia e della Direzione nazionale antimafia.
Come affermato nella elazione semestrale della Dia, “L’informativa antimafia rappresenta uno dei principali strumenti assegnati ai Prefetti per contrastare il fenomeno dell’inquinamento criminale nelle attività economiche del Paese”. Si tratta quindi di proseguire su questa strada affinando ulteriormente le tecniche di indagine e individuando tutti i necessari correttivi, sia di natura legislativa che organizzativa, volti a rafforzare le capacità di contrasto delle infiltrazioni della criminalità – organizzata e non – nell’economia reale (su questo tema vedi l’approfondita analisi contenuta nella relazione conclusiva della Commissione antimafia).
Da questo punto di vista, appare sicuramente positiva l’estensione – purtroppo ridimensionata da successivi provvedimenti di legge – disposta dalla recente riforma del codice antimafia dell’obbligo di acquisire la documentazione antimafia per le concessioni di terreni agricoli e zootecnici demaniali e per tutti i soggetti che fanno parte di consorzi di impresa, senza le limitazioni finora previste. Significativo appare l’invito rivolto dal prefetto di Milano alle forze politiche a riflettere sul possibile ampliamento dell’ambito di applicazione del potere interdittivo del prefetto anche a contesti di criminalità ordinaria al fine di contrastare fenomeni di corruzione e la turbativa delle gare pubbliche.
Un importante problema da risolvere rimane quello della limitata pubblicità delle informazioni contenute nelle banche dati riguardanti le ditte colpite da interdittiva antimafia (solo gli elenchi di cui alle white list sono attualmente accessibili); la normativa in materia di privacy può essere logicamente applicata ai titolari delle cariche sociali delle aziende ma appare impropria l’estensione di tale tutela anche alle aziende. Viene così preclusa la conoscenza all’opinione pubblica – ed anche agli altri operatori del settore – perfino della denominazione delle imprese per le quali la pubblica amministrazione ha verificato l’esistenza di condizionamenti da parte della criminalità organizzata, mentre un adeguata pubblicizzazione delle interdittive antimafia renderebbe tutti pienamente consapevoli dei rischi connessi all’instaurazione di rapporti con tali soggetti evitando così di essere coinvolti in fatti di mafia o in meccanismi di riciclaggio di proventi illeciti.
Il discorso vale anche per i provvedimenti adottati dai giudici amministrativi, per i quali attualmente, in attuazione del D.lgs 196 del 2003, si procede all’oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi altro dato idoneo ad identificare le parti interessate. Nelle più recenti sentenze del Consiglio di stato, ad esempio, viene omesso addirittura il riferimento alla precedente decisione del Tar rendendo impossibile ricostruire lo stesso iter. Appare perciò necessaria una sollecita revisione di tale prassi (analogo problema si riscontra anche per le decisioni riguardanti lo scioglimento delle amministrazioni locali per mafia) che non consente di conoscere – neppure nei casi di conferma definitiva delle interdittive antimafia – i nominativi delle aziende coinvolte.
All.to n. 1: stralci della normativa sulla certificazione antimafia
All.to n. 2: sentenza del Consiglio di Stato n. 1743 del 2016
All.to n. 3: sentenza del Consiglio di Stato n. 565 del 2017
All.to n. 4: sentenza del Consiglio di Stato n. 2231 del 2018