Combattere la corruzione, per combattere la mafia

di Giuseppe Di Lello

Trent’anni or sono, il 10 febbraio del 1986, nell’aula bunker del tribunale di Palermo si apriva il maxiprocesso alla mafia. Quell’evento si percepiva come un punto di non ritorno perché dimostrava che non si era in presenza di una sorta di “spectre” inafferrabile con la quale era impossibile fare i conti. Infatti, da allora in poi Cosa nostra ha subito una notevole repressione che l’ha resa vulnerabile e l’ha senza dubbio indebolita, specie nella sua ala militare.

Messa da parte “l’illusione giudiziaria”, perché da sola la giurisdizione non può farcela, dobbiamo chiederci cosa si deve ancora fare se la mafia, seppure assediata, non è scomparsa.

Lo Stato – o parte dei suoi rappresentanti – ha ricompreso le mafie nel proprio sistema di potere, fino al nostro ieri con l’era berlusconiana: una borghesia mafiosa funzionale al sistema, con la quale si poteva ben convivere. Era però una borghesia che “sparava” e quando superava il limite, l’indignazione nazionale diventava intollerabile e per alcuni episodi criminali eclatanti lo Stato non poteva far finta di nulla e allora doveva reagire e ha reagito: per esempio dopo l’omicidio del generale Dalla Chiesa viene varata la legge Rognoni-La Torre e dopo il terrore mafioso sarà proprio il governo Berlusconi a stabilizzare la norma sul 41 bis: lo scontro armato con lo Stato non paga.

La mafia però resiste, in particolar modo con il controllo del territorio, gli stupefacenti, le estorsioni e, soprattutto, con le tradizionali connessioni con la finanza e l’imprenditoria, mentre il connubio con la politica è ridotto al lumicino perché pericoloso per i politici (vedi Dell’Utri e Cuffaro) e per la mafia è più utile l’apporto degli imprenditori e degli apparati amministrativi degli enti locali.

Rimane il grande problema della mafia e delle sue potenzialità, che però non si può separare dal contesto nazionale. In questo contesto la mafia è realmente, come nel passato, un problema nazionale, intrecciato alla economia, alla conseguente illegalità diffusa e pervasiva e, in definitiva, alla tenuta democratica dell’intero sistema. Le cronache giudiziarie di questi ultimi anni ci dicono che, intrecciati costantemente con prassi corruttive, non c’è una grande o piccola opera, non c’è appalto o concessione di servizi pubblici nei quali non sia presente un gruppo mafioso. Qui il problema però non è solo la mafia, ma il “sistema paese” nel suo complesso. Se non si combatte a fondo la corruzione, l’evasione fiscale, la distruzione del territorio, il riciclaggio e tutti gli altri noti mali del paese, non si combatte efficacemente nemmeno la mafia. Gli strumenti legislativi per combattere la sola mafia sono più che sufficienti. Ci rimane, segno distintivo nazionale, la corruzione e per arginarla almeno in parte, basterebbe tra l’altro fermare i termini di prescrizione, come tutta la magistratura invoca da anni.

Nel contrasto alla mafia ci sono luci ed ombre. Il recente coinvolgimento di alcuni magistrati nell’inchiesta sulla disinvolta gestione dei beni confiscati alla mafia ha fatto emergere un confuso intreccio tra i portatori di una antimafia genuina e gli interessi illeciti di sedicenti antimafiosi. C’è oggi in Sicilia una diffusa coscienza antimafia ma è del pari cresciuta a dismisura, anche a causa di una falsa retorica antimafiosa alimentata da molta stampa acritica, la corsa ad arruolarsi nell’esercito dell’antimafia di personaggi e associazioni che nulla avevano e hanno a che fare con l’antimafia e che vi si sono intruppati sulla base di una facile autocertificazione di antimafiosità: se non si ha il coraggio di disboscare questa selva di arrivisti e affaristi, l’antimafia non recupererà una sua credibilità che oggi è scesa molto in basso.


Giuseppe Di Lello

 

Giuseppe Di Lello ha esercitato a Palermo la professione di magistrato, chiamato dal capo dell’Ufficio Istruzione di Palermo, Antonino Caponnetto nel pool antimafia, in cui fu giudice istruttore. Nella XII legislatura del parlamento italiano è stato consulente della Commissione parlamentare antimafia. Di Lello è stato il primo firmatario di quella che successivamente è diventata la legge 109/96 in materia di utilizzo sociale dei beni confiscati alle mafie.

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