Grazie al consenso dell’autrice e del Corriere di Calabria rilanciamo il pezzo “Je suis San Luca, chi è senza peccato scagli la prima pietra” pubblicato il giorno 14 marzo. Un’analisi puntuale relativa alla situazione sociale, istituzionale e criminale del comune di San Luca e alle prospettive future alla luce del provvedimento annunciato dalla Commissione Nazionale Antimafia per le prossime elezioni comunali senza candidati.
Un contributo di Anna Sergi*
San Luca è piccolo centro aspromontano della Calabria ionica considerato “la mamma” della ‘ndrangheta. Potrebbe porsi un problema etico nel parlarne, perché la gente del posto non vuole che si parli di loro, in nessun senso, né per difenderli né per condannarli. Si sentono animali da circo, giudicati e presi in giro, quando non presi d’assalto e lapidati da media e istituzioni di turno. Eppure, come tante altre volte, mi trovo qui a pensare a quelle strade semi-deserte dell’Aspromonte, e a voler dare un contributo, se non altro analitico.
Mi chiedo spesso, infatti, perché non si vedono manifesti e profili social aggiornati con la scritta “Je suis San Luca”, oppure “Siamo tutti San Luca”, a difesa di quei posti che diventano sineddoche di una regione disastrata e altamente stigmatizzata. Ma la risposta la so già ed è semplicissima: non solo non siamo tutti San Luca, ma per carità, non vogliamo esserlo. Conviene un po’ a tutti in Calabria e in Italia che posti come San Luca (o Platì o Sinopoli o Natile…) portino le loro croci da soli, cosicché si possano delineare confini fittizi tra bene e male, tra sviluppo e degrado, e sentirsi al sicuro una volta chiariti quelle frontiere. Ma andiamo con ordine.
Un inferno ammobiliato
Immaginate di essere cresciuti e di vivere in un paese inghiottito da una montagna verde e aspra, che si mangia il tuo tempo, rallentandolo oltremodo. Contestualmente si crea un rapporto quasi morboso con tutto ciò che a quel tempo e a quel paese dà vita: la famiglia, le stagioni, la chiesa, la Madonna di Polsi, ma soprattutto la Montagna, che tutto stritola, ma che al contempo è la tua migliore amica, quella da fotografare, da conoscere e riconoscere, da giustificare e da sopportare.
A San Luca, tra le cose che sopravvivono, c’è il risentimento per lo stato, vissuto come lontano, ladro, e oppressore, e la ‘ndrangheta, che agisce sul filo tra il rifiuto di un despota e la ricerca di protezione. I clan di San Luca erano e sono fondamentali per il narcotraffico a livello globale. Dinastie reali della ‘ndrangheta, l’hanno fondata, la cambiano, la circoscrivono, la potrebbero anche in parte distruggere.
La ‘ndrangheta definisce (erroneamente) il paese nelle narrazioni cannibalizzate da media e da istituzioni che tendono a semplificare in modo manicheo, bene o male. A San Luca però la gente normale ammobilia l’inferno: le fiamme che avvolgono il paese (immaginarie, per lo più, ma a volte reali quando l’Aspromonte brucia) le vedono solo gli estranei, le istituzioni, la polizia, la magistratura, i giornalisti.
Chi ci sta dentro, nel cerchio delle fiamme, sopravvive aggrappandosi a ciò che di positivo c’è nel quotidiano, sperando che oggi, almeno oggi, non venga arrestato nessuno, non si parli di loro in TV, non ci siano blitz dei carabinieri, non venga ammazzato nessuno. Perché ogni giorno poi c’è anche molto che agonizza a San Luca: la speranza di cambiamento, l’eguaglianza sostanziale, l’accesso ai diritti di base, la democrazia, la politica, lo stato.
Ma iniziamo a dare i numeri. A San Luca abitano poco più di 3.500 persone. Solo 700 di costoro risultano attualmente impegnati in attività lavorativa; il tasso di disoccupazione è elevatissimo, pari al 57%. Sono 369 gli abitanti del comune registrati nelle banche dati in uso alle forze dell’ordine come inseriti all’interno dell’organizzazione mafiosa del territorio, la ‘ndrangheta. Sono oltre 200 in paese i detenuti per reati riconducibili al crimine organizzato (associazione di tipo mafioso e associazione finalizzata al traffico degli stupefacenti).
Tra 50 e 70 il numero dei sottoposti a misure limitative della libertà personale. Ben 49 i soggetti che sono esponenti di organizzazioni criminali costituenti proiezione delle famiglie del paese al di fuori del territorio calabrese. A San Luca ci sono almeno 5 ‘ndrine, Strangio, Nirta, Pelle, Vottari e Mammoliti.
Nel 2022 sono stati commessi 66 delitti, 37 nel 2023 e 11 tra il 1° gennaio e il 31 maggio 2024; il numero è basso perché la ‘ndrangheta protegge, la gente non denuncia, sembra non succedere mai niente. E poi, sono stati 1.963 i giorni in cui, dal 17 maggio 2013, il comune di San Luca è rimasto privo di organi democraticamente eletti. E con 1.263 voti su 1.444 è stato finalmente eletto Bruno Bartolo sindaco nel maggio 2019. Il paese vota quando vuole votare; quando non vuole votare – come nel settembre 2022 per le politiche – solo il 21.49% dei cittadini aventi diritto al voto si presenta alle urne. Teniamolo a mente.
Questi dati, riportati in una recente relazione presentata dalla Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno delle mafie sulla missione a San Luca del giugno 2024, articolano un’analisi dettagliata della situazione socio-economica, criminale e amministrativa del comune calabrese. A onor del vero, la Commissione, in quest’occasione più che nel recente passato, dimostra di saper scavare più a fondo in quelle che sono le cause sociali che facilitano la persistenza della ‘ndrangheta in Aspromonte (e non solo).
E non fa sconti, questa Commissione, ai commissariamenti passati (e presenti…) che non hanno risolto, come auspicato, le criticità amministrative e politiche di San Luca. Si fa autocritica su cosa serve, e manca, riguardo alla legislazione sullo scioglimento dei comuni per infiltrazioni mafiose (artt. 143-146 del decreto legislativo n. 267 del 2000) che la Commissione stessa sta da anni cercando di riformare.
Nella relazione, infatti, si nota come il territorio di San Luca sia rimasto in gran parte inaccessibile e sottosviluppato. La mancanza di infrastrutture adeguate e la carenza di attività produttive compromettono le possibilità di crescita. L’assenza di candidature alle elezioni, fenomeno che continua a ripetersi e che tutt’ora è causa del commissariamento del paese (dal 1993 ad oggi solo 3 sindaci hanno completato il loro mandato) è emblematicamente rappresentativa della cappa di sfiducia e paura che sembra caratterizzare la vita politica locale. Di qui la grave disaffezione rispetto alla partecipazione democratica.
I tre aspetti da analizzare
San Luca, da questi numeri, appare come un paese in cui la fragilità strutturale della società e delle istituzioni è riconosciuta ma di fatto minimizzata, quando non deprecata (di chi è poi la colpa di non saper reagire…?); la ‘ndrangheta è totalizzante, eppure ancora fraintesa; si sottovaluta una radicalizzazione del risentimento antistato; il distacco dalle istituzioni è normalizzato come conseguenza prevedibile della presenza mafiosa.
Tutto ciò che prende vita e tutto ciò che muore a San Luca è collegato. Ci sono tre aspetti da considerare: primo fra tutti, la natura della ‘ndrangheta; secondo, il rapporto tra ‘ndrangheta e comunità; terzo, i processi di vittimizzazione che radicalizzano quel diffuso risentimento tanto necessario alla mafia quanto distruttivo di qualsiasi senso di comunità e impegno politico condiviso.
Per iniziare, la ‘ndrangheta di San Luca è una mafia ubiqua. I Sanluchesi affiliati di ‘ndrangheta agiscono contestualmente dal paese verso l’altrove e dall’altrove verso il paese. Ciò che succede a uno di loro a Düsseldorf ha ripercussioni su fratelli, moglie, figli a San Luca; ciò che fa uno di loro ad Aosta ha ricadute su un’intera famiglia a San Luca, e magari anche a Lisbona o a Canberra.
Ma attenzione: sebbene la ‘ndrangheta venga spesso associata (e ridotta) solo ai crimini che commette, primo fra tutti il traffico di stupefacenti transfrontaliero, la natura della mafia aspromontana è molto più composita. Rimane ancorata alla manipolazione di quel risentimento che in molte frange della società (calabrese, ma non solo) sposa impulsi antistato e retorica antipolitica. Questo risentimento viene amplificato dalle ‘disavventure’ (così vengono chiamate…) dei paesani all’estero, assoggettati a severo scrutinio dalle autorità autoctone e a indagini a migliaia di chilometri dal paese, a causa di quel collegamento con certi cognomi, con certe reputazioni, con una certa storia paesana.
Lo Stato oppressore
E arriviamo al secondo punto. Avvolti dalla Montagna che stritola ma dà un’illusione di protezione, alcuni sanluchesi crescono pensando di essere dei sopravvissuti, protagonisti di una resistenza che accomuna molti paesi nel sud Italia. Si sentono vittime di oppressione, discriminazione, razzismo, e soffrono di traumi intergenerazionali legati alla migrazione forzata e alla perdita di identità di intere famiglie. Gli uomini di ‘ndrangheta in questo scenario sono parte di questa storia.
Sono individui che si raccontano come paladini della resistenza, disposti a ‘rischiare’ diventando fuorilegge pur di ‘contrapporsi’ allo stato oppressore. Non lo sono, paladini, e non rischiano mai davvero; a rischiare sono solo quelli che la ‘ndrangheta sfrutta e assoggetta come manovalanza in attività criminali. Ma se gli affiliati di ‘ndrangheta fingono o si illudono di agire in modo ‘giusto’ – non nei confronti dello stato, ma nei confronti della loro gente – quella gente tenderà a proteggerli schierandosi dalla loro parte e non con lo stato e le istituzioni.
Perché in fondo quella gente condivide la medesima narrazione dell’oppressione statale. Le istituzioni pubbliche sono percepite come assenti perché lo sono: manca l’acqua, mancano le strade, manca l’assistenza sanitaria, manca la scuola, manca il sostegno ai commercianti, manca il supporto ai servizi amministrativi.
Perché pagare le tasse se i servizi non ci sono, ci si chiede (non solo a San Luca)? Questa logica perversa mortifica il senso civico dei cittadini che vorrebbero contribuire al bene della collettività a monte, anche solo pagando le tasse. In questo scenario, la politica locale è stata spesso espressione di una contrapposizione alle istituzioni provinciali e regionali, dalle quali ci si sente abbandonati, puniti, dimenticati.
La comunità vittimizzata
E arriviamo al terzo punto. Esiste un senso profondo di solidarietà tra i calabresi, soprattutto in alcune zone della regione. Si fonda sulla condivisione di esperienze comuni di discriminazione e razzismo – al Nord come all’estero – e può essere manipolato da logiche di ‘ndrangheta – logiche di appropriazione parassitaria e di arricchimento personale di pochi. Simili esperienze possono anche portare a veri e propri traumi familiari e intergenerazionali che le faccende di ‘ndrangheta sicuramente esasperano.
Avere figli o parenti che finiscono in carcere in Australia, o in Germania, per le famiglie locali è una ferita tanto ricorrente quanto dolorosa. La comunità sanluchese, come tante altre in Aspromonte, è gravemente vittimizzata da questi processi sociali e culturali. Per capire questo processo di vittimizzazione non è sufficiente raccontare solo l’oggettività dei fatti – cioè da dove nasce il danno subito e cosa contribuisce alla negazione sistematica dei diritti e del rispetto della persona e della sua integrità.
Serve anche capire l’origine di questa vulnerabilità e fragilità sociale, pur riconoscere l’effetto che marginalizzazione e discriminazione possono avere sulle identità collettive. Solo allora si potrà capire da dove effettivamente scaturisce quel risentimento. Quando quest’ultimo si radicalizza diventa una quasi-ideologia, cioè chiave di lettura dominante del proprio rapporto con lo stato e con l’esterno, nonché ragione di un’esortazione collettiva antistatale e antipolitica.
La ‘ndrangheta sfrutta questa visione radicalizzata, grazie alla quale consoliderà la sua presa su seguaci o apologeti. Questa retorica antistatale rovescia i più basici valori civici: partecipazione alle elezioni o pagare le tasse diventano un disvalore. L’apologia di mafia, intesa come il minore tra due mali, e una generale sfiducia nei confronti del potere istituzionale ne sono la conseguenza. Questa tendenza, si noterà, non si osserva solo a San Luca, anzi. Oggi si è fatta ubiqua anch’essa. Purtroppo, è in questo senso che siamo tutti un po’ sanluchesi.
Se lo spazio abitato dalla ‘ndrangheta – e delle sue radici culturali più profonde – e lo spazio occupato dal risentimento civile e politico si sovrappongono, ecco che abbiamo “l’inferno” di San Luca. Un inferno che è difficile ammobiliare “aggiustando la miseria”, come avrebbe detto Alessandro Pizzorno, se non rimanendo del tutto paralizzati, immobili, evitando ogni impegno che porti un qualsiasi cambiamento, rimanendo a guardare la Montagna. Magari con una speranza, ogni giorno un po’ più flebile, che un giorno quei concetti astratti, come legalità, diritti, servizi, supporto, opportunità, per miracolo si concretizzino anche lì.
Una risposta che non risponde
Ed ecco dunque che la proposta finale della Commissione parlamentare antimafia lascia l’amaro in bocca. Per ovviare al deficit di democrazia (cit.), alle prossime elezioni di metà 2025 la Commissione: “si dichiara disponibile a fornire… la candidatura diretta, in quelle realtà, di propri membri. Sarebbe un segnale di notevole valore, che potrebbe incoraggiare, in loco, altri cittadini, altre forze, ad offrire il proprio contributo e la propria disponibilità a servire quelle realtà”.
A parte le difficoltà tecniche del caso (Chi si candida? Per quanto tempo? Da dove governerà? Come?) non si capisce come questa soluzione sarebbe diversa, nel concreto, da uno dei tanti commissariamenti del paese. Si rischia, pertanto, di sortire l’effetto contrario rispetto a quello auspicato: alimentare la diffidenza verso ‘gli oppressori’; esacerbare e radicalizzare ancora di più il risentimento antistatale e dunque, implicitamente, para-mafioso; cancellare del tutto l’agonizzante sentire politico del luogo.
Se lo stato volesse dare “un segnale di notevole valore” potrebbe iniziare ad ascoltare i cittadini di San Luca, a cui non servono cose ‘speciali’, calate da Roma. Basterebbe iniziare con le cose ‘normali’: finanziamenti alla scuola, una sanità accessibile, una burocrazia efficiente, una politica locale supportata. Siamo tutti San Luca, e come a San Luca, siamo tutti vulnerabili quando ci sentiamo in trappola. Siamo tutti a rischio di fare del nostro sacrosanto risentimento ragione di disimpegno e di adesione a proposte politiche particolaristiche.
Se la democrazia va a morire a San Luca è perché quel paese ‘disastrato’ – tra sfruttamento di ‘ndrangheta e vittimizzazione di stato – è solo un esempio estremo di alcune storture italiane. Je suis San Luca, e chi è senza peccato scagli la prima pietra.
*Professoressa ordinaria di Criminologia, Università di Essex (UK)
** L’immagine di copertina è realizzata con l’intelligenza artificiale e non rappresenta circostanze e persone reali.