LE DONNE NELLE MAFIE: UN RUOLO SOTTOVALUTATO CHE HA FAVORITO LE ORGANIZZAZIONI CRIMINALI

Si è appena concluso il secondo incontro del progetto “Donne e antimafia, tra storia e attualità”, promosso dal Dipartimento pari opportunità della Regione Lazio e da Avviso Pubblico.

Questa volta al centro del dibattito il ruolo delle donne all’interno delle strutture delle organizzazioni mafiose.

«Abbiamo un dualismo dell’essere donna all’interno di questo mondo: da un lato il percorso che le porta a quella premiership all’interno delle organizzazioni mafiose, molto spesso in sostituzione di un patriarcato – con queste parole ha aperto l’incontro l’assessora alle Pari Opportunità della Regione Lazio, Enrica Onorati – dall’altro quelle donne che proprio perché più protese al tema della legalità, della lotta alle ingiustizie, della difesa anche dei valori familiari e sociali di comunità, sono anche quelle che più di tutte si ribellano rispetto a questa sovrastruttura mafiosa». Cita la figura di Lea Garofalo, uccisa per salvare la figlia. «L’obiettivo è comune e collettivo: la battaglia contro le mafie passa necessariamente attraverso le donne, perché senza di loro perde forza e si impoverisce».

Ma quali sono i loro compiti, come mogli, madri, sorelle, nel trasmettere la sub-cultura mafiosa? Quale evoluzione della figura femminile si registra nel tempo? Quanto si conosce dell’argomento?

«Quella delle donne all’interno delle organizzazioni mafiose è una dimensione che per molto tempo è stata sottovalutata e poco studiata – spiega Alessandra Dino, scrittrice e docente di sociologia all’Università di Palermo –. Quando cominciai a interessarmene negli anni ’90 se ne sapeva molto poco. La causa di questo ritardo sta nei pregiudizi dei generi che non hanno permesso per molto tempo di indagare a fondo questa dimensione. È dipeso soprattutto da come gli uomini di mafia hanno raccontato le loro donne davanti ai magistrati, che ne hanno poi tratto una sottovalutazione del ruolo». Questa sottovalutazione ha favorito quindi le stesse organizzazioni mafiose, che non avevano alcun interesse nel rappresentare le donne nel loro vero ruolo.

«Non c’è un bianco e nero – insiste la professoressa Dino – queste donne fanno parte del nostro mondo. Quello delle donne di mafia non è un sottomondo isolato da soggetti culturalmente e psichicamente diversi ma è una porzione della società. E come tali sono tre volte escluse da quella società che le emargina: perché donne, perché donne di mafia e perché del sud».

«Ma questo non deve in realtà ingannare», spiega ancora la professoressa Dino. «Le donne hanno spesso un ruolo importante all’interno delle organizzazioni mafiose. Sostituiscono gli uomini quando questi sono in carcere, ma questa emancipazione non significa comparazione con gli uomini. Anche se nel tempo le donne, che sono meno visibili, sono anche più importanti di prima, anche perché più acculturate. Sono imprenditrici, professioniste, si sanno muovere nella scena sociale con più disinvoltura».

Da troppo tempo c’è una lettura stereotipata del ruolo della donna nelle organizzazioni criminali. Anche se dalla Procura di Roma finalmente si sta assegnando il giusto nome alle cose.

«È evidente che la stessa differenza che c’è tra etichetta e cosa reale è la stessa che passa dalla persona che non si può esaurire nel suo ruolo di imputata o di testimone o di collaboratrice di giustizia. Non è possibile imbrigliare le donne in una rigida categoria – ammette la Procuratrice aggiunta al Tribunale di Roma, Ilaria Calò – Noi cerchiamo delle chiavi di lettura, dei fili rossi ed una possibile interpretazione della realtà. Possiamo porci delle domande e provare a rispondere. Ma è evidente che le cose cambiano insieme al contesto». La realtà criminale romana e più in generale quella del Lazio è in linea col resto del Paese? Tendenzialmente sì, risponde la Procuratrice Calò. Ma la galleria di figure femminili è vasta e varia ed è uno specchio della società.

«Ci sono le collaboratrici giustizia, che sono fondamentali come nel caso di Ostia o nelle indagini sui Casamonica. Le testimoni di giustizia; le componenti di strutture di mafie autoctone, ad esempio Azzurra Fasciani. E poi donne imprenditrici in rapporto con la criminalità organizzata. In questo contesto abbiamo figure apicali, come nei procedimenti per le indagini sulle petrolmafie e la gestione dei soldi che arrivano dalle organizzazioni camorristiche. Ci sono donne attive nello spaccio di stupefacenti o nella gestione dell’usura; nelle intestazioni fittizie. Donne che osteggiano la collaborazione degli uomini con le autorità e donne che la facilitano».

Insomma, un mondo vasto che segue la struttura delle varie organizzazioni criminali sia di stampo tradizionale che delle forme ibride di criminalità che si sviluppano con l’evolversi degli interessi sui territori. Un’evoluzione quella delle donne nelle mafie la cui previsione di studi e indagini sul campo si sta realizzando: ovvero con un ruolo sociale nel contesto criminale non troppo dissimile a quello comune. La difficoltà di essere donne nei contesti di mafia, non è diversa dal resto: pensare, quindi, che le donne siano necessariamente vittime, non dare loro il “diritto alla cattiveria”, chiude la professoressa Dino, non riflette la realtà delle cose.

L’evento di oggi è il secondo di cinque incontri di un percorso iniziato il 2 dicembre 2021 e che si concluderà a giugno 2022.

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