CORRUZIONE E POLITICA A TRENT’ANNI DA MANI PULITE: IL CONTRIBUTO DI ALBERTO VANNUCCI

Non una celebrazione, ma un bilancio di cosa abbia rappresentato il 1992 nelle aule della magistratura e della politica italiana. Cosa hanno provocato allora le inchieste e i processi, quali sono le conseguenze ancora oggi visibili nel rapporto tra partiti, amministratori, magistrati e cittadini. Quale è la vera sfida per superare tangentopoli nelle idee e nei fatti.
di Alberto Vannucci*

Ben trent’anni sono trascorsi dal 1992, un anno denso di avvenimenti drammatici, ormai incisi nella memoria collettiva. Eppure è attraverso lenti interpretative ancora contrapposte che si presenta la lettura di un evento spartiacque della storia italiana: il 17 febbraio 1992 segna l’avvio dell’inchiesta di “mani pulite”, con l’arresto per corruzione di Mario Chiesa, presidente socialista del Pio Albergo Trivulzio, un ospizio pubblico milanese. Nell’arco di pochi mesi il collasso dei robusti meccanismi di “protezione incrociata” fondati sul reciproco potere di ricatto e l’indebolirsi progressivo di alcuni leader politici che fino ad allora avevano garantito il rispetto di una ferrea “regola di omertà” avrebbe determinato il coinvolgimento nelle inchieste di migliaia di amministratori politici e burocratici, di centinaia di parlamentari, cinque ex-Presidenti del consiglio, decine di ministri ed ex-ministri, dei vertici di tutte le imprese pubbliche e private, di quote significative del mondo delle professioni.

I numeri dalle inchieste milanesi

Il bilancio del solo filone milanese vede ben 4520 persone indagate, 1322 rinvii a giudizio (42,3% delle richieste), 620 condanne del Gup, 611 condanne nei successivi gradi di giudizio; a livello nazionale si contano circa 12mila persone indagate e 5 mila arresti. Le assoluzioni furono appena il 14,5 per cento, contro una media nazionale di oltre il 20 per cento. Emersero forme di “criminalità dei potenti” talmente radicate da consolidarsi in prassi di illegalità “istituzionalizzata”, dunque capaci di auto legittimarsi agli occhi dei suoi stessi protagonisti.

Il sistema fiscale “secondo”

Con le parole del manager di una delle più grandi imprese italiane di costruzione: “L’illegalità era così legalizzata che [pagando tangenti] non provavo il sentimento di commettere un atto criminoso”. Il segretario socialista Bettino Craxi, nel famoso discorso alla Camera del 3 luglio 1992, espresse in forma teatrale il medesimo desolante concetto: “Ciò che bisogna dire, e che tutti sanno del resto, è che buona parte del finanziamento politico è irregolare o illegale. (…) Se gran parte di questa materia deve essere considerata materia puramente criminale, allora gran parte del sistema sarebbe un sistema criminale.” Un vero e proprio “sistema fiscale secondo” – come lo definì il sociologo Alessandro Pizzorno – imponeva infatti che una percentuale prefissata delle risorse allocate dallo Stato – appalti, concessioni, etc. – dovesse venir restituito dal “sistema delle imprese”, con modalità sotterranea e non rendicontate, ai centri di potere partitico che ne aveva condizionato l’assegnazione.

Il crollo dei partiti di massa

“Mani pulite” ha dissodato il terreno del cimitero degli elefanti dove i vecchi partiti di massa, con le loro “pesanti” (e costose) strutture organizzative capillarmente diffuse sul territorio, sono andati a morire. Quei “vecchi” partiti sembravano già agonizzanti, intossicati proprio dal peso crescente che logiche e risorse della corruzione avevano acquisito quale fattore di distorsione della selezione del personale politico, dei percorsi di carriera, degli equilibri di potere, delle alleanze, delle stesse scelte programmatiche. Un’illusione ottica era generata dalla forza apparente di quei soggetti politici: la “rendita della corruzione” consentiva loro di mantenere apparati, sfarzosi appuntamenti congressuali, miriadi di pubblicazioni, campagne elettorali dispendiose – e nel contempo alimentava circuiti di spreco parassitario, clientelismo, arricchimento personale.

Parallelamente, appariva depotenziata la propria capacità di suscitare partecipazione, di selezionare la classe politica, di elaborare proposte programmatiche. Al contrario, la pratica di una “corruzione organizzata” determinava una distorsione della competizione democratica che avvantaggiava i più rapaci e spregiudicati “politici d’affari”, in una sorta di “selezione dei peggiori”.

Lo stesso Mario Chiesa descrisse un “ecosistema della corruzione” dove la consegna di una quota delle tangenti intascate ai propri referenti politici era condizione obbligata per coltivare speranze di ascesa e di carriera, la militanza volontaria era scoraggiata, mentre l’attivismo della “falange” dei propri sostenitori era a libro paga, le vere sedi decisionali si ritraevano nel cono d’ombra di pseudo associazioni politico-culturali, entità autonome, l’una contro l’altra, armate per presidiare ruoli e pubblici incarichi più redditizi, aventi strutture e bilanci informali separati. Quei partiti, già corrosi all’interno, si sono sgretolati in breve. I magistrati non sono stati la determinante, bensì il catalizzatore di un processo degenerativo dei meccanismi di rappresentanza politica democratica di cui la corruzione imperante era al tempo stesso sintomo e causa nascosta.

Qual è il lascito dell’inchiesta “mani pulite”, trent’anni dopo?

In una sorta di schizofrenia collettiva, la si è etichettata di volta in volta come una “rivoluzione pacifica” guidata da giudici capaci di incarnare un sentimento diffuso di palingenesi civica contro la politica corrotta; oppure come un “golpe giudiziario” – nelle versioni complottiste attivato da poteri forti e servizi segreti stranieri – capace di destabilizzare il paese attraverso l’eliminazione di avversari politici democraticamente eletti. Sicuramente si tratta di un’eredità difficile da decodificare, per le sue molte implicazioni in ambiti diversi, tra cui quello internazionale.

L’inchiesta che ha svelato il più esteso panorama di corruzione nella storia delle democrazie occidentali ha gettato un’ombra persistente sull’integrità della classe dirigente italiana. Questo si riflette inesorabilmente nell’attribuzione dei ratings e nelle scelte d’investimento degli operatori internazionali, come certificano da decenni gli sconfortanti indici internazionali di “percezione della corruzione” elaborati dall’Ong Transparency International – l’Italia è al 42esimo posto nel 2021, in lieve risalita solo negli ultimi anni permane nella fascia più bassa a livello europeo.

C’è poi da considerare la ferita mai rimarginata del radicale pessimismo dei cittadini sull’integrità della propria classe politica: per oltre il 90% dei cittadini italiani – dato Eurobarometro 2017 – la corruzione è diffusa o molto diffusa a livello nazionale e locale, secondo oltre l’80% – dato Demos-Libera 2021 – è presente come o più rispetto agli anni di “tangentopoli”.

Un disincanto radicale dei cittadini che apre le porte al distacco dell’astensionismo e dall’antipolitica da un lato, ma dall’altro rende molti elettori ricettivi alle sirene incantatrici degli appelli populisti. Ancora, “mani pulite” ha avviato un “conflitto a bassa intensità”, tuttora irrisolto, tra magistratura e classe politica, da allora percepiti in competizione nel riconoscimento pubblico del proprio ruolo istituzionale.

Pratiche sbagliate resistenti

Da ultimo, “mani pulite” ha generato l’illusione diffusa – mai tramontata da allora, nonostante le cicliche delusioni collettive – che la corruzione si possa debellare, o almeno contrastare efficacemente, attraverso l’azione repressiva di una magistratura cui una società civile incontaminata affida le proprie speranze di riscatto. Non è così. Le pratiche di corruzione – tuttora sistemica in molti settori e aree – assumono sempre più spesso forme “istituzionalizzate”, in cui gli “abusi di potere a fini privati” si manifestano non tanto nel violare, bensì nel piegare agli interessi particolaristici di corrotti e corruttori leggi, procedure, sedicenti bisogni “pubblici”, rendendosi così invulnerabili all’azione dei magistrati.

Meccanismi più sofisticati di redistribuzione della “rendita della corruzione” contribuiscono poi a schermare la natura illegale delle relazioni e delle contropartite. Al tempo stesso, l’idea di una società civile “incontaminata” contrapposta a una classe politica corrotta pare tramontata a fronte del persistente consenso elettorale che ha beneficiato figure politiche compromesse, nonché alle manifestazioni di illegalità di massa, di cui le inchieste giudiziarie sono cartina di tornasole, ma non certo la determinante.

La sfida

Di qui una sfida cruciale, specie in vista della gestione degli ingenti investimenti previsti dal PNRR: la valorizzazione di politiche e strumenti di prevenzione della corruzione introdotti con la legge 190/2012, spesso trattati con approccio “burocratico” e formalistico, nonché il coinvolgimento “dal basso” di cittadini, associazioni e “comunità monitoranti” nella loro elaborazione e applicazione.

* Alberto Vannucci, politologo, professore ordinario di Scienza Politica presso il Dipartimento di Scienze politiche, Università di Pisa.
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