«Come mai si è perso più di un secolo per affrontare questa insidia permanente della nostra democrazia e della nostra economia?». Ce lo spiega lo storico Isaia Sales nel suo primo contributo per “AP-profondimenti”, il nuovo blog di Avviso Pubblico
di isaia sales*
Discutere seriamente di mafie è cosa assai complicata in Italia, nonostante esse accompagnino la nostra storia fin dal 1861 e sicuramente sono nate prima dell’Unità. La loro presenza è stata negata nel primo cinquantennio unitario o ridotta a mera espressione di un costume individuale prevalente in alcune regioni meridionali, poi è stata data per scomparsa dal regime fascista che aveva sopravvalutato la sua azione repressiva, e usata in funzione anticomunista nell’immediato dopoguerra così da garantire ad esse una specie di impunità fino agli anni Ottanta del Novecento quando una nuova generazione di magistrati, poliziotti e carabinieri ha messo fine alla tregua infinita sancita nei fatti per più di un secolo tra mafie e rappresentanti dello Stato.
LE PRIME RISPOSTE DALLO STATO
Solo nel 1963 il Parlamento italiano ha varato una apposita commissione per studiarle e suggerire le norme e gli strumenti per fronteggiarle; nel 1982 è stato stabilito che l’associarsi tra mafiosi fosse di per sé reato; nel 1996 è stata varata una norma per la restituzione alla collettività dei beni che i mafiosi si erano procurati con la violenza, e, solo nel 1991, è entrata in funzione la norma sullo scioglimento dei consigli comunali per infiltrazioni mafiose.
Ci sono voluti più di cento anni dai primi rapporti di polizia che ne segnalavano la pericolosità per dotare l’Italia di un apparato legislativo adeguato e di forze di sicurezza all’altezza del compito. Il primo discorso in Parlamento che ne indicava compiutamente le caratteristiche fu fatto da Diego Tajani nel 1875, l’anno dopo Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino indicarono in una loro inchiesta le novità dei mafiosi rispetto ai briganti e ai banditi, cioè essere essi dei “facinorosi delle classi medie” e di aver dato vita a una vera e propria “industria della violenza”.
MA LA DOMANDA RIMANE…
Come mai si è perso più di un secolo per affrontare questa insidia permanente della nostra democrazia e della nostra economia? E’ questa la domanda centrale che dovremmo porci tutti e che invece allontaniamo dalla nostra riflessione perché la risposta sarebbe scioccante e banale al tempo stesso: le mafie hanno avuto così lungo corso in Italia, dal suo formarsi come nazione fino ai giorni nostri, perché esse (diversamente dai banditi, dai briganti e dai pirati) non appartengono solo alla storia del crimine predatorio, ma fanno parte a pieno titolo della storia dei poteri e degli intrecci tra potere formale e quello criminale.
Semplici organizzazioni criminali, infatti, non sarebbero riuscite a durare tanto a lungo né tantomeno a raggiungere un tale potere se non nel quadro di reciproche relazioni con il mondo politico-istituzionale che ad esse si sarebbe dovuto contrapporre. Le mafie esprimono, dunque, “violenza di relazione” e non di contrapposizione con coloro che avrebbero dovuto reprimerla.
I NUMERI DELLE VITTIME
Sono i dati a consolidare questo convincimento. Migliaia e migliaia di morti ammazzati dal 1861 in poi, di cui almeno 10.000 negli ultimi 30 anni del Novecento. Li ricordiamo ogni 21 marzo nella Giornata della memoria e dell’impegno, divenuta evento ufficiale della Repubblica italiana dal 2017. Almeno 1000 vittime innocenti. Settanta tra sindacalisti e capilega ammazzati tra il 1905 e il 1966. Quindici magistrati uccisi (più dei 10 caduti per mano dei terroristi rossi e neri), e centinaia di vittime tra le forze dell’ordine, tra cui diversi in attentati mirati. Nove giornalisti ammazzati. Tra i 70 esponenti politici uccisi (secondo un accurato studio di Wikimafia) la maggioranza sono amministratori locali, ancora oggi minacciati e intimiditi come segnala Avviso Pubblico nel suo report annuale “AMMINISTRATORI SOTTO TIRO”.
E non sono mancati delitti di mafia al Centro-Nord (il primo eccellente è quello del magistrato Bruno Caccia a Torino nel 1983) con Lombardia, Piemonte, Liguria ed Emilia-Romagna che hanno assunto un ruolo centrale negli equilibri mafiosi, in particolare di quelli ‘ndranghetisti. La nazionalizzazione delle mafie, cioè il loro vasto radicamento nel Centro-Nord, è sicuramente il fenomeno politico-criminale più significativo dell’ultimo trentennio.
L’Italia post-unitaria sradicò il brigantaggio in meno di un decennio. Nel secondo dopoguerra ha debellato il terrorismo etnico in Alto Adige, il separatismo siciliano, il terrorismo politico delle Brigate rosse e dei neofascisti, il banditismo in Sardegna, i sequestri di persona.
Le mafie no. Perché? La risposta è molto semplice. I terroristi erano esterni allo Stato, volevano abbatterlo. I mafiosi no, non sono in guerra contro di esso, o in ogni caso non sentono lo Stato avversario, ma solo singoli uomini che lo rappresentano. Inoltre, il terrorismo non è una componente dell’economia mentre le mafie sì. Il ricorso ai mafiosi negli affari comincia a presentarsi come una risposta strutturale alle esigenze di una parte dell’economia di mercato. E nel Centro-Nord ciò è del tutto evidente.
UNA SFIDA QUOTIDIANA NEL TERRITORIO: ASSOCIAZIONI E SINDACI
La cosa positiva da segnalare è che il fronte che combatte le mafie va ben al di là di coloro che formalmente sono incaricati di farlo. La presenza di un vasto movimento d’opinione che affianca l’azione delle polizie e della magistratura segnala una felice anomalia nella storia della lotta ai criminali. Questo ruolo lo hanno svolto e lo svolgono meritatamente l’associazione Libera fondata da don Luigi Ciotti e Avviso Pubblico che ha un compito più difficile: rappresentare i tantissimi amministratori locali che resistono alle mafie, dimostrando che accanto ai 367 decreti di scioglimento di enti locali per infiltrazione mafiosa – 71 dei quali più di una volta – ci sono migliaia di altri Comuni in cui le mafie si combattono con coraggiosi comportamenti quotidiani.
AMMINISTRATORI DA NON DIMENTICARE
Uno dei primi sindaci a cadere per mano della mafia nel 1915 fu quello di Corleone, Bernardino Verro, socialista, organizzatore dei fasci siciliani, mentre altri cadranno nel secondo dopoguerra, come quello socialista di Naro, Pino Camilleri, e il vicesindaco comunista di Favara, Gaetano Guarino; l’ultimo Angelo Vassallo, sindaco di Pollica, nel 2010. Mi piace qui ricordare Marcello Torre, sindaco di Pagani, ucciso pochi giorni dopo il terremoto del 1980 a cui Marcello Ravveduto ha dedicato uno splendido libro, Il sindaco gentile (Editore Melampo 2015). In Calabria come dimenticare Giuseppe Valarioti, consigliere comunale e segretario del Pci di Rosarno (ucciso la sera delle elezioni del 1980) o Giannino Losardo, consigliere comunista di Cetraro, ucciso dalla ‘ndrangheta nello stesso anno. In provincia di Caserta va ricordato Tonino Cangiano, vicesindaco di Casapesenna, costretto sulla sedia a rotelle per un agguato camorristico perché si era opposto all’assegnazione illegale di un appalto. Di quanti altri ancora si potrebbe parlare per evitare di confondere chi si oppone con chi collude. Avviso Pubblico dovrebbe ogni anno dedicare una sua iniziativa al ricordo di uno di loro.
Non tutti i politici sono uguali, così non tutti gli amministratori locali. Perciò mi fa piacere che sia stato avviato questo blog perché è ancora più significativa l’azione di quegli amministratori che individuano nei mafiosi i nemici delle loro comunità. A questi sindaci, assessori e consiglieri comunali va il nostro pensiero e il nostro sostegno.