Piergiorgio Morosini, presidente del Tribunale di Palermo ha partecipato lo scorso 27 febbraio al webinar “Le strategie di prevenzione e contrasto alle infiltrazioni mafiose negli enti locali: l’importanza di fare rete”, organizzato da ANCI Sicilia e Avviso Pubblico. Nel suo intervento, che riproponiamo, ha tracciato un’analisi puntuale sulla genesi dei rapporti tra esponenti dei clan e rappresentanti delle istituzioni e lanciato un’esortazione a lavorare insieme, nel rispetto dei ruoli di ognuno, a difesa della democrazia.
Piergiorgio Morosini
È importante creare un cordone sanitario intorno alle istituzioni per difenderle da appetiti e assalti mafiosi. Le iniziative giudiziarie delle ultime settimane, svolte a Palermo e a Catania dimostrano infatti, quanto siano ancora vitali i gruppi criminali in queste aree. E, soprattutto l’indagine di Catania mette in luce la programmatica reciprocità di favori tra infedeli uomini delle istituzioni e segmenti delle organizzazioni mafiose.
Nell’inchiesta di Catania si sottolinea l’esistenza di uno scambio tra il sostegno elettorale e il successivo interessamento per l’affidamento di lavori pubblici e la gestione di servizi, in particolare quelli cimiteriali. Non ci deve colpire l’entità tutto sommato contenuta di alcuni vantaggi perché sappiamo. In certe terre, connotate da una cultura mafiosa, ciò che conta per i clan è mantenere la possibilità di elargire, grazie ad accordi con segmenti deviati delle istituzioni locali.
L’intatta capacità dei gruppi mafiosi di elargire favori a soggetti interessati a svolgere una certa attività, è un dato da non sottovalutare. Laddove ci sono ancora pesanti difficoltà nel trovare un lavoro o per portare avanti iniziative imprenditoriali, ci sono ambienti che guardano a quanto può mettere in campo lo Stato e allo stesso tempo sono attenti al favore che può fornire l’esponente di un gruppo criminale per colmare delle lacune: per cui basta la concessione di una piccola licenza per svolgere un’attività e si crea lo scambio.
La genesi dei rapporti
Il tema per noi, e anche per chi opera negli uffici territoriali, è capire come nascano certe forme di collegamento. Se facciamo riferimento al materiale giudiziario abbiamo una varietà di circostanze che sanciscono la genesi di certi rapporti. Certamente le elezioni locali costituiscono, in diversi casi, l’occasione per instaurare rapporti connotati da una certa reciprocità di favori.
I clan votano e fanno votare. Soprattutto nei centri di limitate dimensioni, in una stagione di crisi dei partiti e quindi di confronto tra liste civiche espressione sovente di cordate di piccoli e medi interessi, la mobilitazione mafiosa può fare la differenza. Al punto che, in occasione delle elezioni locali, i clan talvolta decidono di internalizzare le rappresentanze, candidando esponenti dello stesso gruppo criminale, inseriti in cordate espressione di interessi di varia natura.
Altre volte i gruppi mafiosi decidono di agevolare candidati a livello locale che, pur mantenendosi autonomi, promettono favori in svariati settori e per scopi anche di piccola entità come la concessione di licenze commerciali o autorizzazioni. E poi, ci sono situazioni nelle quali, all’insaputa del diretto interessato, si conferisce un sostegno al candidato al fine di accreditarsi nei suoi confronti in vista di un futuro rapporto di collaborazione in caso di elezione.
Va detto che in diverse indagini, anche in quelle riguardanti le presenze mafiose nel nord d’Italia, si è riscontrata la situazione nella quale il politico che rappresenta l’istituzione locale viene agganciato nell’ambito di relazioni volte a costruire delle alleanze che mettono in comune risorse politico istituzionali, economiche e professionali con vantaggi di varia natura per ognuno dei protagonisti.
Si crea il cosiddetto “comitato d’affari” che è costituito da varie componenti, come si è verificato ad esempio nell’agrigentino tra il 2004 e il 2005. In quel caso, un assessore regionale era diventato il punto di riferimento principale di un ampio progetto di spartizione occulta di lavori pubblici che teneva dentro oltre ad un gruppo imprenditori e amministratori locali anche liberi professionisti e funzionari amministrativi, in vista del condizionamento delle procedure ad evidenza pubblica.
I rappresentanti dei clan nei centri più piccoli cercano una dimensione simbiotica con alcune figure istituzionali o imprenditoriali del territorio, mirando ad un rapporto che possa diventare strutturale e duraturo nella reciprocità dei favori scambiati.
Naturalmente nella genesi di queste forme di collegamento, sia Avviso Pubblico, sia l’ANCI hanno messo in evidenza in diversi studi e dossier approfonditi, come ci siano numerosi casi nei quali il rapporto non si crea su base volontaria, ma attraverso forme di minaccia e intimidazione anche violenta nei confronti dei rappresentanti delle istituzioni da parte di esponenti delle organizzazioni criminali.
Certo, quella che in origine appare per l’imprenditore una forma di “collaborazione necessitata” coi clan può evolvere in forme di collaborazione più spontanea, come emerso negli ultimi venti anni da una serie di approfondimenti giudiziari. In ogni caso, non è da sottovalutare il fatto che l’imprenditore, talvolta, è costretto ad avvalersi della collaborazione del gruppo mafioso in quanto penalizzato, o messo pesantemente in difficoltà, dalla condotta della pubblica amministrazione.
Ad esempio, quando vanta crediti nei confronti di una amministrazione pubblica che ritarda irragionevolmente i suoi adempimenti, creando le condizioni per lo stato di decozione dell’impresa creditrice. In questi casi, l’imprenditore chiede il “sostegno mafioso” sulla base della percezione di un collegamento tra i clan e l’istituzione pubblica.
Gli ostacoli alla prevenzione e al contrasto
In questo quadro generale, bisogna fare i conti con le condizioni nelle quali opera la magistratura in Italia a partire dalla percezione che si ha del nostro ruolo e del nostro lavoro. Negli ultimi anni assistiamo a campagne di denigrazione sistematica nei nostri confronti che hanno reso molto difficile operare serenamente.
Come magistrati abbiamo raccolto positivamente la dichiarazione di intenti di diversi rappresentanti del governo rispetto alla priorità della loro attività politica nel contrasto a qualsiasi forma di mafiosità, proprio per questo pare incomprensibile che poi ci si esprima con diffidenza nei confronti di coloro che sono anche i terminali di molte denunce di imprenditori, funzionari e sindaci che sono isolati.
Sappiamo bene poi che per fronteggiare le richieste, le intimidazioni, le infiltrazioni mafiose nel circuito della politica non bastano le denunce alla magistratura e alle forze di polizia, ma si deve lavorare molto sulla prevenzione. A tal proposito, non possono non manifestarsi alcune perplessità su alcune iniziative legislative della maggioranza di governo. Una delle leggi bersaglio della campagna riformatrice degli ultimi anni è stata la Legge 190/2012, conosciuta come legge Severino.
La norma contiene indicazioni molto importanti relative alla prevenzione di certe forme di collaborazione tra gruppi criminali e rappresentanti delle istituzioni a livello locale. Mi riferisco in particolare ai suggerimenti, contenuti in essa, rispetto alla selezione dei pubblici funzionari che debbano ricoprire posizioni sensibili rispetto a possibili richieste mafiose, ad esempio negli uffici preposti alle pratiche edilizie o al rilascio delle licenze.
Nella Legge sono previste misure per la prevenzione di condotte illecite, quali la formazione e il controllo dei funzionari, così come l’obbligo di rotazione per chi ricopre gli incarichi prima citati. A volte non è facile per i comuni rendere attuabili queste norme, ma mi chiedo se sia solo un problema di risorse o non piuttosto di volontà.
L’altro versante su cui operano da tempo Avviso Pubblico e ANCI è la sensibilizzazione della comunità di riferimento su alcuni problemi che, in maniera più o meno evidente, costituiscono il segnale delle presenze criminali. Per riaccendere l’attenzione e condividere informazioni e strategie, in diversi comuni italiani sono stati istituiti organismi come gli Osservatori o predisposti tavoli di confronto sulla sicurezza ai quali partecipano gli amministratori insieme a rappresentanti delle forze di polizia, delle categorie professionali e produttive, del sindacato.
Sono iniziative che richiedono un approccio di fondo: consentire una strategia di prevenzione e di contenimento sulla base di alleanze istituzionali preziose. In questo momento certi anticorpi vanno potenziati mentre ci troviamo nelle condizioni evidenziate dal presidente dell’ANAC, Giuseppe Busia che, in occasione del decimo anniversario dalla creazione dell’autorità anticorruzione ha ribadito come le normative recenti possano rappresentare nuove opportunità per comitati di affari volti ad aumentare il malaffare nella pubblica amministrazione.
Secondo il presidente dell’ANAC le pubbliche amministrazioni sarebbero più vulnerabili rispetto a manovre corruttive, riferendosi in particolare: alle norme relative ai piani di finanziamenti per le aziende in crisi post pandemia dove i controlli per accedere e ottenere sono ridotti all’osso; e alle nuove regole per l’affidamento diretto degli appalti e dei subappalti in assenza di leggi che regolamentino le lobby. In altri termini, ha parlato di novità che finiscono per sovraesporre la posizione di certi amministratori.
In un disegno di intervento congiunto a presidio della correttezza delle procedure nella pubblica amministrazione, bisogna anche sottolineare i rischi derivanti dalle riforme del sistema penale in riferimento all’abolizione del reato di abuso di ufficio e alla rivisitazione della figura del traffico di influenze. Inoltre, siamo alla vigilia dell’approvazione di una norma processuale (disegno di legge n. S. 932 Zanettin) che contiene per l’autorità giudiziaria la possibilità di intercettare in caso di reato nella pubblica amministrazione non oltre il termine dei 45 giorni.
Si parla, sia sul piano penale, sia sostanziale, di strumenti indispensabili per il contenimento del malaffare. L’obiettivo dichiarato dal legislatore di limitare il potere del giudice penale sulle scelte discrezionali operate nelle pubbliche amministrazioni, può essere condivisibile, perché ci sono stati in passato anche degli eccessi della magistratura. Ma su quel versante già una riforma del 2020 sull’abuso d’ufficio aveva alzato gli argini rispetto ad “eccessi di attenzione” della magistratura sull’operato dei pubblici amministratori.
In concreto dobbiamo interrogarci sulla disponibilità in tutto il territorio nazionale di un’offerta di polizia giudiziaria e di magistratura in grado di analizzare con competenze e specializzazione determinati fenomeni. Spiego meglio: se si decide che in alcune zone non debbano esserci persone specializzate ad indagare sui reati di pubblica amministrazione, si determina una sorta di “zona franca” anche a livello giudiziario, dove gli amministratori pubblici avranno mano libera e i mafiosi “busseranno alla porta”.
Lo stesso vale per la magistratura che non ha una distribuzione omogenea in Italia delle specializzazioni in materia di criminalità nella pubblica amministrazione: questo comporta la difficoltà, se non proprio l’impossibilità per alcuni territori di prevenire e contrastare fenomeni criminali che coinvolgano le istituzioni locali anche per trasferire informazioni o segnalazioni ad organismi nazionali.
Per quello che riguarda l’attenzione sul fenomeno è importante anche l’attività della stampa che purtroppo in molti casi ultimamente ha seguito la campagna di denigrazione verso le indagini della magistratura, ritenute eccessive. Abbiamo bisogno di un racconto della realtà equo, in grado di riportare quanto accade con costanza e senza eccedere nel giudizio, sia verso i potenziali responsabili di reati, sia verso chi controlla e verifica su tali ipotesi.
Solo una collaborazione rispettosa tra istituzioni e società civile può immunizzare le nostre comunità dal dilagare del malaffare e della prepotenza mafiosa. In fondo la vera posta in gioco è la qualità della nostra democrazia.