Sintesi della Relazione sull’analisi delle procedure di gestione dei beni sequestrati e confiscati

 

Premessa. Il 5 agosto 2021 la Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno delle mafie ha approvato la Relazione sull’analisi delle procedure di gestione dei beni sequestrati e confiscati. Si tratta di un lungo elaborato, frutto di più di due anni di lavoro del IX Comitato, che si propone di analizzare l’applicazione concreta della normativa in tema contrasto patrimoniale alla criminalità organizzata e di formulare proposte di miglioramento della disciplina vigente, al fine di giungere a una più efficace e tempestiva riutilizzazione delle risorse economiche sottratte alle mafie.

 

Capitolo 1 (evoluzione normativa). L’obiettivo del lavoro del Comitato è fornire una panoramica sulle criticità e le buone prassi degli Enti locali, destinatari dei beni «ma non sempre a conoscenza degli immobili sequestrati e confiscati nel loro territorio e delle modalità per acquisirli al loro patrimonio indisponibile e per ottenere finanziamenti europei o statali». Su queste basi, la Relazione vuole anche proporre una serie di modifiche «ritenute non più rinviabili» (pag. 9) e dotare gli enti locali di un supporto concreto (il vademecum, cfr. infra, cap. 13).

Dopo una doverosa premessa sull’unicità della l. 109/1996 nel panorama internazionale e sull’importanza delle misure di prevenzione patrimoniale nel contrasto alla criminalità organizzata, il Comitato concentra l’attenzione sull’evoluzione normativa in materia, a partire dalla legge Pica del 1863 fino ad arrivare al d. lgs. del 2011. Di seguito alcune tappe fondamentali:

  • 646/1982 (cosiddetta legge Rognoni-La Torre), che non solo introduce il reato di associazione a delinquere di tipo mafioso (art. 416bis), ma prevede anche misure di prevenzione a carattere patrimoniale (sequestro e confisca) al fine di sottrarre alla criminalità organizzata denaro e beni di origine illecita in presenza «di sufficienti indizi, come la notevole sperequazione tra tenore di vita ed entità dei redditi apparenti o dichiarati» (pag. 12). L’idea dietro tale legge era colpire la forza economica delle cosche riaffermando la presenza dello Stato, ma allo stesso tempo scalfire il prestigio personale del mafioso determinando un indebolimento della sua capacità di intimidazione e del consenso sociale fondato anche sulla distribuzione di posti di lavoro;
  • l’iniziativa dell’associazione Libera (1995), che riesce a raccogliere un milione di firme per la destinazione e il riutilizzo dei beni confiscati in chiave sociale;
  • la previsione di un Fondo Unico Giustizia (FUG, cfr. cap. 2) dal 2008;
  • la costituzione di un albo nazionale degli amministratori giudiziari nel 2009 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica);
  • la nascita nel 2010 dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata (d’ora in poi, Agenzia o Agenzia nazionale), che coadiuvasse «l’autorità giudiziaria nell’amministrazione e custodia dei beni sequestrati nei procedimenti penali, includendovi tutti quelli rientranti nella competenza delle direzioni distrettuali, e nei procedimenti di prevenzione rispettivamente fino alla conclusione dell’udienza preliminare e fino al decreto di confisca emesso in primo grado» (pag. 16; per le rilevanti modifiche in materia, cfr. cap. 4).

Nel 2015 si verifica una grave vicenda giudiziaria che vede protagonista, tra gli altri, la presidente della sezione misure di prevenzione di Palermo. I reati contestati a lei e ad altri quattordici imputati sono corruzione, abuso d’ufficio, falso. Ciò che, tuttavia, qui conta rilevare è «il disvalore etico delle condotte, il contenuto delle intercettazioni che sottolineavano l’asserito mercimonio della funzione pubblica, l’ampio clamore mediatico suscitato, hanno determinato un danno gravissimo per l’intera magistratura ed un effetto pregiudizievole, in particolare, per il settore delle misure di prevenzione» (pag. 19). Tali eventi hanno portato la Camera dei deputati ad approvare una serie di modifiche e in particolare l’art. 35 del Codice antimafia, ponendo rigidi paletti al numero degli incarichi aziendali per l’amministratore giudiziario (non superiori a tre) e ampliando i casi di incompatibilità.

Nel 2017 viene promulgata la l. 161, che modifica alcune previsioni del decreto del 2011, al fine di migliorare il funzionamento del sistema, l’efficacia delle procedure e il coordinamento tra norme. Di seguito un elenco esemplificativo e non esaustivo delle scelte tecniche più importanti:

  • semplificazione della normativa;
  • creazione di sezioni specializzate distrettuali per la trattazione delle misure di prevenzione personale patrimoniali sia in tribunale sia in corte di appello;
  • potere di proposta di misure di prevenzione patrimoniali anche da parte del Procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo (estensione dei soggetti);
  • citazione dei terzi titolari di diritti reali di garanzia (in genere, istituti di credito);
  • irrilevanza dei redditi non dichiarati al fisco al fine della prova della provenienza lecita dei beni sequestrati;
  • introduzione del nuovo istituto del controllo giudiziario, che trova applicazione in luogo dell’amministrazione giudiziaria «nei casi in cui l’agevolazione risulti occasionale e sussistano circostanze di fatto da cui si possa desumere il pericolo concreto di infiltrazioni mafiose idonee a condizionare l’attività d’impresa» (pag. 24);
  • trasparenza nella scelta degli amministratori giudiziari;
  • concentrazione dell’impegno dell’Agenzia nell’attività di destinazione dei beni confiscati, con competenza nell’amministrazione dei beni solo dalla confisca di secondo grado – cosiddetta “doppia conforme” – (data l’impossibilità oggettiva di gestire l’enorme quantità di beni dopo il decreto di confisca o l’udienza preliminare).

La Relazione pone poi l’accento sulle pronunzie della Corte costituzionale e della Corte europea in materia, da tenere in considerazione nel proporre migliorie alla normativa vigente, considerando che «la stratificazione delle norme, spesso non coordinate tra loro o prive di norme transitorie, ha portato alla coesistenza di più leggi applicabili, con diverse conseguenze in tema di gestione, di tutela dei terzi, di competenza nazionale dell’Agenzia» (pag. 30). Il capitolo si conclude con la riflessione sulla necessità di una riforma mirata che fornisca organicità e coordini il sistema normativo di contrasto patrimoniale alla criminalità.

 

Capitolo 2 (gestione e destinazione dei beni sequestrati o confiscati). Il Comitato pone da subito l’accento su un problema: quando il procedimento di confisca diventa irrevocabile, l’Agenzia deve procedere al pagamento del credito e, se le somme di denaro non sono sufficienti, procede alla liquidazione dei beni mobili e immobili, delle aziende o dei rami d’azienda (art. 60 Codice antimafia). Tale meccanismo sembrerebbe favorire dunque la liquidazione o la vendita delle società e degli immobili, con l’inevitabile conseguenza che rimarrebbero ben pochi beni da assegnare. Ad incidere negativamente sono anche le complesse procedure previste in questi casi, che possono risultare incompatibili con i compiti e i tempi di intervento dell’Agenzia. A riguardo, il Comitato ritiene necessario procedere a una breve trattazione della normativa in materia di gestione e destinazione e rimandare più avanti l’analisi delle criticità (cfr. infra, in vari punti).

La gestione dei beni è un’attività complessa: «i beni vanno individuati ed appresi; va garantita la gestione secondo criteri di efficienza ed economicità, salvaguardando la prosecuzione dell’impresa; vanno, altresì, tutelati i diritti dei terzi ed evitato che le scelte di gestione possano pregiudicare i diritti del proposto o di altri soggetti passivi, essendo possibile una revoca del provvedimento cautelare» (pp. 33-34). Dopo il sequestro, viene nominato un amministratore giudiziario, seguendo criteri di trasparenza e regole di incompatibilità. Il giudice delegato controlla l’attività dell’amministratore e, nei casi più complessi, di altri tecnici e soggetti qualificati. È dunque chiaro che le scelte di gestione adottate da questi attori nella fase iniziale possano incidere in modo significativo sulla futura destinazione del bene: in questo senso, i rapporti sono caratterizzati da un costante confronto per individuare le soluzioni ritenute ottimali nel caso specifico.

Risulta poi fondamentale la relazione particolareggiata dell’amministratore giudiziario (art. 36 Codice antimafia): va presentata entro 30 giorni dalla nomina e contiene molte informazioni, come lo stato del bene, l’indicazione del suo valore, il presumibile valore di mercato (rilevante ai fini del giudizio di sproporzione alla base del potenziale decreto di confisca) e gli eventuali diritti dei terzi. La riforma del 2017 ha previsto una disciplina differenziata della relazione richiesta all’amministratore giudiziario che gestisca un’azienda: considerata la complessità delle valutazioni da effettuare, il termine è di sei mesi e deve contenere una dettagliata analisi sulla sussistenza di concrete possibilità di prosecuzione o ripresa dell’attività. Se essa fosse rilevata, l’amministratore dovrebbe allegare un programma, un vero e proprio piano industriale, contenente le modalità e i tempi di attuazione della proposta, che il tribunale dovrebbe analizzare ed eventualmente approvare. È evidente che questo processo vincola l’Agenzia che, laddove si dovesse giungere a una confisca di secondo grado, troverà un binario già tracciato. Se, al contrario, non fossero riscontrate concrete possibilità di prosecuzione o ripresa dell’attività, il tribunale – sentite tutte le parti coinvolte – dovrebbe disporre la messa in liquidazione dell’impresa.

La destinazione dei beni immobili e dei beni aziendali è invece effettuata con delibera dell’Agenzia: il provvedimento deve essere adottato entro 90 giorni dalla definitività della confisca (prorogabile di altri 90 in caso di situazioni particolarmente complesse). Le somme di denaro sono versate al FUG, mentre i beni immobili possono essere:

  • mantenuti al patrimonio dello Stato per finalità di giustizia, di ordine pubblico o di protezione civile istituzionali o utilizzati dall’Agenzia nazionale per finalità economiche;
  • trasferiti per finalità istituzionali, sociali o economiche (con vincolo di reimpiego dei proventi per finalità sociali), in via prioritaria al patrimonio indisponibile del Comune ove l’immobile è sito o al patrimonio della provincia, della città metropolitana o della Regione. Gli enti territoriali (anche attraverso la costituzione di consorzi o attraverso associazioni) possono amministrare direttamente il bene oppure assegnarlo in concessione – a titolo gratuito – a enti, associazioni o cooperative sociali (come indicato nella normativa). I beni non assegnati in questo contesto possono essere utilizzati dagli enti locali per finalità di lucro, ma i proventi devono essere reimpiegati esclusivamente per finalità sociali. Nell’ambito delle finalità istituzionali, gli immobili possono essere inoltre utilizzati dagli enti locali per far fronte alla necessità di locare soggetti in particolare condizione di disagio economico e sociale;
  • assegnati gratuitamente direttamente dall’Agenzia a enti e associazioni previste dalla normativa, dove sia evidente la loro destinazione sociale;
  • trasferiti prioritariamente al patrimonio indisponibile del Comune o della Regione ove l’immobile è sito, nel caso in cui siano confiscati per il delitto di associazione per delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti e quando vengano richiesti per l’apertura di centri di cura o recupero per tossicodipendenti o per case di lavoro per i riabilitati;
  • laddove non sia possibile destinare il bene per le finalità sopra descritte, l’Agenzia può emanare un provvedimento di vendita al miglior offerente (cfr. infra).

I beni aziendali mantenuti al patrimonio dello Stato sono destinati:

  • all’affitto, quando vi siano prospettive di continuazione o ripresa dell’attività produttive, a imprese pubbliche o private; oppure al comodato, senza oneri per lo Stato, a cooperative di lavoratori dipendenti dell’impresa confiscata;
  • alla vendita o alla liquidazione, con precise modalità, nel caso in cui vi sia una maggiore utilità per l’interesse pubblico oppure il denaro sia finalizzato al risarcimento delle vittime dei reati di tipo mafioso.

Suscita molti dubbi da parte della dottrina e dei giuristi la previsione, a partire dal “decreto sicurezza”, della possibilità di vendere un bene confiscato al miglior offerente (dunque anche a un soggetto privato), nel caso in cui esso non sia in alcun modo destinabile. I proventi derivanti dalla vendita confluiscono al FUG. Il Comitato tiene a sottolineare che si tratta di un’ipotesi residuale, relativa a pochissimi beni e che la procedura deve seguire delle regole molto ferree, al fine di evitare che il bene torni nelle mani di soggetti riconducibili alla criminalità organizzata. In ogni caso, la Relazione evidenzia che l’attenzione deve rimanere alta e che comunque permane «il rischio della vendita a prestanomi dei soggetti cui il bene sia stato sequestrato, non apparendo sufficiente la certificazione antimafia, atteso che sarebbe stato preferibile prevedere più pregnanti indagini patrimoniali sui potenziali acquirenti, anche al fine di verificare la liceità della provvista utilizzata per l’acquisto» (pag. 41).

Il Comitato ritiene poi doveroso fare alcune precisazioni circa il più volte citato FUG: nato nel 2008 e gestito da Equitalia Giustizia S.p.A., è alimentato grazie alle somme di denaro sequestrate nei procedimenti penali e di prevenzione, alle somme ricavate dalla vendita dei beni non destinabili e ad altre attività connesse, ma anche grazie a «risorse non liquide, quali conti di deposito titoli, fondi comuni di investimento e polizze assicurative» (pag. 43). L’utilizzo di tali risorse è strettamente disciplinato dalla legge: parliamo di 3,6 miliardi di risorse liquide e 2,3 miliardi di risorse non liquide (dati aggiornati a fine 2019) impiegate per fronteggiare necessità ritenute urgenti.

Il capitolo si conclude con un’esortazione, da parte della Commissione, a un coordinamento legislativo in materia di gestione e destinazione dei beni confiscati e a una razionalizzazione normativa.

 

Capitolo 3 (sezioni misure di prevenzione nei tribunali). Come precedentemente affermato (cfr. supra, cap. 1), una delle novità della legge del 2017 è stata l’istituzione di sezioni o collegi del tribunale specializzati, che trattano in via esclusiva i procedimenti di prevenzione. Il Comitato ha dunque richiesto delle relazioni a tali sezioni e ha audito diversi magistrati: l’analisi di questo materiale ha «offerto un quadro nazionale complessivo: sono emersi aspetti positivi della normativa, criticità, problematiche interpretative, buone prassi e la necessità di modifiche legislative per ovviare a carenze, aporie o per evitare interpretazioni giurisprudenziali differenti» (pag. 53). I problemi riscontrati si possono così sintetizzare:

  • competenza distrettuale: le sezioni specializzate risulterebbero in realtà istituite solo presso alcuni tribunali; negli altri, vi sono sezioni promiscue e una delle ragioni sarebbe l’inadeguatezza degli organici;
  • valore dei beni sequestrati e confiscati: un dato rilevante è che la maggior parte dei presidenti non è stata in grado di quantificare il valore dei beni sequestrati, poiché il registro informatico del Ministero della giustizia non consente di estrapolare né tale valore né la stima indicata dagli amministratori giudiziari nelle relazioni particolareggiate (cfr. supra, cap. 2). Viene dunque segnalata la necessità di adeguare le strutture informatiche ministeriali al fine di supplire a tali carenze informatiche;
  • criticità procedimentali: si citano, ad esempio, la necessità di idonee misure che assicurino il coordinamento tra i titolari del potere di proposta (procure, ma anche DIA e questore) e alcune criticità relative all’impugnazione dei sequestri;
  • criticità riscontrate nel corso della gestione dei beni: il problema più rilevante in tema di aziende sequestrate riguarda il cosiddetto “costo della legalità”, che porta spesso alla liquidazione delle imprese. L’amministratore giudiziario si trova infatti a dover far fronte a situazioni di lavoro irregolare, diffusa illegalità, mancata sicurezza sui luoghi di lavoro, evasione fiscale e falsa fatturazione. Altra difficoltà è quella relativa a clienti e fornitori che abbandonano l’azienda perché non la ritengono più affidabile oppure perché in precedenza erano forzati dall’associazione mafiosa a utilizzare quei beni o servizi. Da segnalare anche la possibilità che i lavoratori, spesso legati ai proposti, facciano ostruzionismo. A tal proposito, viene citato il virtuoso esempio di Reggio Calabria: per le assunzioni nelle aziende sequestrate, il tribunale ha stipulato uno specifico protocollo con l’Ordine dei commercialisti, denominato “Le amministrazioni giudiziarie. Progetto Lavora con noi”, in base a cui vengono redatti elenchi di nominativi (scrupolosamente controllati) da cui attingere nel caso in cui sia necessario assumere.
    Per quanto riguarda gli immobili, i principali problemi riscontrati sono: irregolarità o abusi edilizi, atti di vandalismo (spesso posti in essere dai proposti stessi), necessità di verificare la regolarità degli impianti, l’abitabilità e la conformità catastale, le difficoltà nell’effettuare sgomberi se gli immobili sono abusivamente occupati.

Da segnalare anche che tutti gli attori del procedimento hanno mostrato perplessità circa il limite numerico di tre incarichi per amministratore giudiziario, inserito sull’onda dello scandalo di Palermo del 2015 (cfr. supra, cap. 1). Il Comitato ritiene che la norma, scritta a seguito di un’emergenza relativa a un solo tribunale, possa essere ora riformulata: il criterio dovrebbe essere quello del valore del compendio aziendale (in un’ottica di efficacia, efficienza ed economicità), e cioè bisognerebbe tenere a mente che tre incarichi possono riguardare aziende medio-piccole e semplici da gestire, mentre a volte un solo incarico può riguardare un patrimonio eccezionale o di particolare difficoltà;

  • ipotesi di mancato coordinamento: come più volte ribadito, con la riforma del 2017 l’Agenzia subentra nella gestione dei beni dopo la cosiddetta “doppia conforme”, ma alcune norme non sono state coordinate in questo senso e prevedono degli adempimenti a carico del tribunale non più coerenti con il sistema.

L’ultima parte del capitolo è dedicata alla DNAA (Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo), che ha inviato al Comitato un’articolata relazione sull’attività svolta in materia di misure di prevenzione patrimoniale e ha presentato alcune proposte finalizzate a rendere la normativa più efficiente. La DNAA sottolinea che è stata realizzata una piattaforma informatica che permette un’ampia conoscenza e circolazione dei procedimenti, delle informazioni e della attività svolte in termini di prevenzione antimafia. Particolare attenzione è poi riservata all’individuazione di patrimoni illeciti in Italia e all’estero (a questo proposito, si segnala l’importante Regolamento UE 2018/1805 per il reciproco riconoscimento dei provvedimenti di sequestro e di confisca). Il capitolo si chiude auspicando un’adeguata interconnessione tra sistemi informativi per avere una diretta interlocuzione e la possibilità di ottenere informazioni complete e aggiornate.

 

Capitolo 4 (l’Agenzia nazionale per i beni sequestrati e confiscati). Il quarto capitolo si focalizza sull’Agenzia, più volte nominata sin qui. Nata nel 2010, nel corso degli anni ha visto una riduzione dei suoi compiti, fino ad arrivare al 2017, quando è diventata competente per la gestione e destinazione dei beni sequestrati e confiscati a decorrere dal provvedimento di confisca di secondo grado (“doppia conforme”). Il motivo è principalmente da ravvisare nell’impossibilità di far fronte a un impegno gestionale superiore, considerata l’esiguità del personale.

L’Agenzia ha sede a Roma e dipende dal Ministero dell’interno; il direttore è scelto tra le figure con più esperienza nella gestione dei beni confiscati; è stato introdotto un nuovo organo, il comitato consultivo di indirizzo; sono stati rafforzati i nuclei di supporto istituiti presso le prefetture; l’organico viene determinato in duecento unità (da coprire con procedure di mobilità – prima il personale era costituito da sole trenta unità). L’Agenzia partecipa alle udienze per l’approvazione del programma di prosecuzione o di ripresa dell’azienda, al fine di assicurare continuità nella gestione (cfr. supra, cap. 2).

L’attuale assetto dell’Agenzia è il risultato di una riflessione sulle criticità evidenziate dagli addetti ai lavori e sui rilievi della Corte dei conti, di cui si dà breve cenno:

  • durata dei procedimenti penali e di prevenzione;
  • mancanza di sistemi informativi e connessione tra banche dati degli uffici giudiziari e dell’Agenzia; dati non univoci, provenienti da diverse fonti, sulla consistenza dei beni sequestrati e confiscati;
  • mancata disponibilità di stime attendibili acquisite dalle relazioni degli amministratori giudiziari, non inserite nel sistema Open Regio (in ogni caso non aggiornato);
  • mancata predisposizione di efficaci strumenti per il monitoraggio dei beni e la verifica del loro utilizzo con valutazione sull’effettivo impatto sociale.

La Corte dei conti ha poi, nel 2018, dato atto degli sviluppi dell’attività dell’Agenzia, che ha sottoscritto numerosi protocolli di intesa e implementato la piattaforma Open Regio (per condividere con le prefetture tutte le informazioni relative ai sequestri e alle confische). La Corte, tuttavia, continua a rilevare molteplici criticità. Segue una interessante tabella in cui vengono riportate tutte le osservazioni della Corte e i corrispondenti comportamenti dell’Agenzia, che cerca di superare il problema rilevato.

Il Comitato riporta poi i tratti salienti delle audizioni del prefetto Bruno Frattasi, direttore pro tempore dell’Agenzia, e del prefetto Bruno Corda, direttore dall’agosto 2020. Il primo ha rappresentato la migliorata situazione, anche a seguito delle modifiche normative intervenute, e ha citato alcuni nuovi strumenti dell’Agenzia, come il “Piano per la valorizzazione di beni confiscati esemplari” che dovrebbe servire a valorizzare beni che «per dimensioni, storia criminale, valore simbolico, potenzialità di sviluppo e prospettive occupazionali, possano diventare “progetti pilota”» (pag. 91). Il direttore ha poi sottolineato che spesso i Comuni non hanno reale consapevolezza della disponibilità, sul proprio territorio, di beni confiscati e che non dispongono di risorse economiche adeguate a utilizzarli: una buona soluzione potrebbe essere la costituzione di consorzi tra Comuni. Importante risulta anche la rilevazione, ancora in corso, secondo cui su circa 6000 beni siti in 579 Comuni la percentuale di riuso a fini sociali si attesta solo al 50%. Una possibile soluzione, già sperimentata a Genova, è destinare i beni ai Comuni dando preferenza agli enti locali che indichino un progetto di riuso sociale e individuino già un soggetto del terzo settore, «con una inversione della sequenza procedimentale nel senso che, prima della manifestazione di interesse, i comuni provvedono a sondare la disponibilità degli attori del privato sociale» (pag. 92).

Per quanto riguarda le aziende, il prefetto Frattasi ha confermato che circa il 70-80% delle aziende confiscate vengono liquidate e propone, nei casi in cui sussistano possibilità di ripresa o continuazione delle attività, l’affiancamento di manager di associazioni come “Manager White List”.

A livello informatico, il prefetto segnala l’evoluzione di Open Regio, ovvero Coper.Nico, che si fonda su «una maggiore cooperazione tra tutti gli attori del sistema, per favorire la più ampia interoperabilità con gli altri sistemi informativi (Ministero della giustizia, Agenzia delle entrate, Enti locali» (pag. 93).

Su sollecitazione del Comitato, Frattasi ha convenuto sul notevole numero di beni (circa 4000) ancora da assegnare o che, se assegnati, non sono stati consegnati a causa di abusi edilizi, occupazione senza titolo o confische parziali. Il prefetto ritiene opportuno, infine, mettere a disposizioni degli enti locali un “set informativo” più completo, ed è quanto questa relazione prova a fare con il vademecum (cfr. infra, cap. 13).

L’audizione del prefetto Bruno Corda, direttore dell’Agenzia dall’agosto 2020, ha fornito ulteriori elementi di riflessione. I dati, aggiornati al 31 marzo 2021, parlano di 18.518 immobili e 2.929 aziende in confisca definitiva. Gli elementi di novità espressi dal prefetto Corda rispetto al direttore pro tempore Frattasi possono essere così sintetizzati:

  • il 30 aprile 2020 è stato varato il progetto “Spazi per ricominciare”, nell’ambito delle iniziative per fronteggiare l’emergenza sanitaria, con circa 200 immobili da utilizzare per ampliare le possibilità di lavoro e didattica in presenza;
  • sono stati programmati degli incontri che coinvolgono le 103 prefetture al fine di favorire lo scambio di informazioni, la discussione sulle criticità operative e il monitoraggio sull’effettivo utilizzo dei beni confiscati.

Il direttore Corda conviene sulla scarsità di conoscenze sul tema da parte degli enti locali e vorrebbe dunque ampliare le conferenze di servizio. Esemplificativa è la seguente tabella, con dati aggiornati al 20 febbraio 2021, relativa al numero di Comuni su cui insistono beni confiscati che hanno o non hanno le credenziali di accesso al sistema informatico dell’Agenzia. Il Comitato ritiene che, a fronte di questi dati, il vademecum allegato possa fornire «un valido strumento operativo, un documento di orientamento per gli amministratori locali che intendano utilizzare, a fini sociali, i beni confiscati alla criminalità organizzata» (pag. 96).

Sono poi stati affrontati in particolare due argomenti: l’assegnazione provvisoria dei beni immobili non ancora definitivamente confiscati agli enti locali e il bando per l’assegnazione diretta agli enti del terzo settore degli immobili confiscati definitivamente. Su entrambi i punti, l’ANCI e molti sindaci hanno espresso perplessità e vorrebbero essere più coinvolti.

A questo punto la Commissione propone alcune considerazioni: a fronte di quanto appena esposto, «rimangono aperti i problemi relativi al ritardo nelle destinazioni dei beni, al mancato effettivo utilizzo dei beni da parte degli enti locali, alla non ancora raggiunta interrelazione o interconnessione tra la piattaforma telematica Re.G.I.O (OpenRe.G.I.O.; ora Copernico) e i sistemi del Ministero della giustizia» (pag. 100). La riflessione si conclude con un ulteriore accento sulla necessità di una banca dati completa e aggiornata, opinione condivisa anche dal Ministero della giustizia, che sottolinea carenze proprio in tema di informatizzazione dei dati: permane la mancanza di un flusso bidirezionale per lo scambio di dati con l’Agenzia, la registrazione dei dati è incompleta, le attività di migrazione dei dati sono complesse e, in generale, i sistemi restituiscono dati non allineati. Il Ministero della giustizia ha, inoltre, presentato «un quadro profondamente deludente: lo Stato non conosce esattamente il numero e la tipologia dei beni sequestrati e confiscati nei procedimenti e ignora del tutto, in quanto non rilevati, quelli relativi al processo penale» (pag. 105).

Il capitolo si conclude con l’audizione del Ministro della giustizia, Marta Cartabia, che conferma il quadro sconfortante evidenziato dalla Comitato e si impegna ad intensificare gli sforzi per una più efficiente gestione dei beni confiscati alle mafie e alla criminalità organizzata.

 

Capitolo 5 (compensi degli amministratori giudiziari). Il Comitato dedica poi un breve capitolo al tema dei compensi degli amministratori giudiziari, strettamente connesso al DPR n. 177 del 2015 che ha sostanzialmente equiparato l’attività dell’amministratore giudiziario a quella del curatore fallimentare. È da segnalare che «la gestione dei beni sequestrati e confiscati, per come inquadrata dal legislatore, è passata da un modello di amministrazione statica, finalizzata essenzialmente alla conservazione dei beni tipica del custode ad un modello di amministrazione dinamica, del tutto diversa anche da quella fallimentare, finalizzata alla redditività della gestione, a mantenere sul mercato le aziende sequestrate in vista, in caso di confisca definitiva, di una destinazione e di un riutilizzo sociale, produttivo e pubblico, restituendo così alla collettività i patrimoni delle organizzazioni criminali» (pag. 112). Nonostante la complessità delle attività dell’amministratore giudiziario, il DPR del 2015 ha ritenuto tale figura analoga a quella del curatore fallimentare, anche in termini di liquidazione del compenso. Nella Relazione sono elencati i problemi evidenziati a questo proposito dai presidenti dei tribunali, nonché i criteri adottati per stabilire il compenso degli amministratori e su questi punti la Commissione auspica una modifica legislativa.

 

Capitolo 6 (le relazioni con il sistema bancario e il sostegno finanziario pubblico). Come ampiamente ricordato sopra, le aziende sequestrate subiscono normalmente un rapido processo di deterioramento della situazione economica: «anche grandi imprese che presentano al momento del sequestro tutti i requisiti di bancabilità e/o di merito creditizio vedono compromessa ogni ipotesi di sviluppo imprenditoriale». Siamo di fronte a un paradosso: le banche – dopo il provvedimento ablatorio da parte del tribunale – tendono a ridurre o negare i finanziamenti accordati all’impresa. Con il sequestro, dunque, pare si riduca la «meritevolezza del credito riconosciuto all’impresa ormai passata da un’amministrazione mafiosa a quella dello Stato» (pag. 120). La Banca d’Italia ha osservato a tal proposito un fenomeno singolare: «gli operatori del credito, quasi fossero dotati di poteri di “preveggenza”, alle imprese successivamente poste in amministrazione giudiziaria avevano erogato finanziamenti di importo inferiore […] rispetto a un analogo campione di imprese, invece, dal futuro lecito e lineare […] in sintesi, l’avvio del processo di contrazione delle linee di credito sembra aver luogo ben prima del sequestro» (pp. 120-21). Secondo gli esperti di Banca d’Italia, le possibili spiegazioni sono due: le banche talvolta riescono a sapere di un sequestro prima delle sua emissione; oppure – ed è l’ipotesi privilegiata dall’analisi – la contrazioni degli affidamenti dipende da fattori tecnici, e cioè dal deterioramento delle condizioni gestionali delle imprese.

Il Comitato ha interpellato il dottor Fabio Bernasconi, capo del servizio rapporti istituzionali della Banca d’Italia, che ha assicurato che l’Istituto si adopera per un continuo rafforzamento della “cultura del controllo”, delle regole e delle sanzioni in tema di contrasto alle illegalità in campo finanziario. Ricorda poi che sono stati intensificati i rapporti di collaborazione con l’autorità giudiziaria, considerata la stretta correlazione tra le finalità di supervisione bancaria e gli obiettivi di contrasto alla criminalità.

Il Comitato concentra poi l’attenzione su quelle aziende sequestrate ancora vitali e che potrebbero essere recuperate mediante precise strategie di rilancio e assistenza finanziaria. Sul punto la Banca d’Italia ha sottolineato che «giammai la sottoposizione ad una misura ablativa dovrebbe di per sé comportare un peggioramento nell’erogazione del credito. Ma, allora, cosa ostacola in concreto l’ordinario fluire dei rapporti tra banca e azienda sequestrata?» (pag. 123).

Dopo il decreto di sequestro o confisca, il credito vantato dalla banca si “congela”: ciò non dovrebbe comportare ostacoli nell’erogare nuovi finanziamenti a soggetti sottoposti a misure di prevenzione, ma – ricorda il dottor Bernasconi – ogni decisione sul punto è rimessa all’autonomia imprenditoriale degli intermediari. Nel concreto, tuttavia, l’eventualità descritta «si è tradotta nella tendenziale certezza che, dopo il sequestro, il credito verrà rinegoziato in peius, se non del tutto revocato» (pag. 124). Le banche interpretano infatti l’applicazione di misure patrimoniali non come un primo passo verso la legalità, ma come un momento che accresce la rischiosità e può influenzare negativamente le prospettive dell’impresa. Il Comitato auspica che la Banca d’Italia impartisca direttive affinché gli istituti di credito diano il necessario sostegno finanziario a queste aziende; in caso contrario, dovrebbero motivarne le ragioni in modo analitico.

Uno strumento utile al rafforzamento della finanziabilità delle imprese in sequestro o confisca è rappresentato dal rating di legalità, rilasciato dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato (AGCM). La possibilità di ottenerlo dovrebbe indurre le imprese a rispettare i principi di legalità, perché ottengono così una serie di benefici a livello economico ma anche reputazionale. Tale istituto si sta gradualmente affermando: premiare aziende “recuperate” e incentivare lo sviluppo di realtà economiche efficienti – nonostante i “costi della legalità” – assume anche un importante valore simbolico. Per ottenere il rating di legalità è necessario soddisfare una serie di requisiti di legalità, appunto, e il punteggio viene incrementato in presenza di un impegno anche sotto il profilo etico, sociale e ambientale. L’AGCM ha comunicato che tra gennaio 2020 e febbraio 2021 sono dieci società hanno richiesto il rating di legalità: i dati sono incoraggianti, ma dimostrano che l’istituto non è ancora diffuso quanto si vorrebbe.

L’Associazione bancaria italiana (ABI) ha segnalato anche l’esistenza di Protocolli di intesa sottoscritti a partire dal 2021 con diversi tribunali, al fine di consentire la continuità delle attività delle imprese, sostenendole nel percorso di legalità. Il Comitato, inoltre, auspica che siano stabiliti in modo permanente dei momenti di consultazione tra gli attori bancari, i tribunali e l’Agenzia.

Altro aspetto rilevante in tema di aziende sottoposte a misure di prevenzione patrimoniali è la tutela dei diritti dei terzi, in particolare le banche, che dal 2017 devono dimostrare la buona fede e l’assenza della strumentalità del credito rispetto all’attività illecita posta in essere. Il Comitato sottolinea che «il sistema antimafia non può concedersi il lusso che proprio dalle banche, primo baluardo difensivo all’ingresso dei capitali mafiosi nell’economia legale, vi siano – anche isolati – cedimenti, indulgenze o casi di willful blindness (cecità volontarie) nei confronti di clienti con carenti requisiti di legalità» (pp. 132-33).

Vengono poi messe in luce alcune criticità e buone prassi: il punto fondamentale è che i Protocolli dell’ABI sono certamente utili, ma che vi è la necessità di uno strumento predisposto dall’Agenzia stessa che sia più ampio e omogeneo, da applicare su tutto il territorio nazionale, e che permetta un dialogo permanente e la rinegoziazione dei rapporti bancari con le aziende sequestrate e confiscate, nel rispetto dell’autonomia e discrezionalità dei vari istituti. Vengono citati i tribunali di Roma, Milano e Reggio Calabria come esempi di buone prassi in questo senso.

La seconda parte del capitolo è dedicata al tema del sostegno finanziario per la valorizzazione e il riutilizzo dei beni confiscati. Vengono riepilogate le principali risorse ordinarie derivanti dal bilancio statale (a livello nazionale e regionale), ma l’attenzione del Comitato si concentra soprattutto sull’analisi della l. 208/2015, con cui «il legislatore ha previsto un complesso di misure agevolative con la finalità di sostenere finanziariamente le aziende sequestrate o confiscate alla criminalità organizzata, le cooperative sociali assegnatarie di beni immobili confiscati e le cooperative di lavoratori dipendenti di imprese anch’esse confiscate alla criminalità organizzata» (pag. 140). A questo proposito viene ascoltata la dottoressa Laura Aria, dirigente del Ministero dello sviluppo economico, al fine di individuare possibili piste di miglioramento nell’erogazione dei fondi. L’intervento agevolativo finanzia programmi di sviluppo biennale che possono riguardare anche investimenti produttivi (per la tutela della salute e della sicurezza sul lavoro), ristrutturazione e riorganizzazione aziendale (per l’incremento dei livelli occupazionali). L’audizione si è concentrata sulle novità introdotte nel 2018, come per esempio l’aumento degli importi dei finanziamenti concedibili e l’aggiunta di ulteriori categorie di aziende beneficiarie, ma i dati mostrano una «ridotta operatività dello strumento» che «potrebbe essere superata […] anche attraverso una maggiore integrazione delle attività tra il Ministero dello sviluppo economico e l’ANBSC» (pag. 143).

In tema di garanzie e finanziamenti gestiti dal MISE, emergono poi altri due problemi: le società in amministrazione e gli enti locali sono esclusi dai finanziamenti e i requisiti di patrimonializzazione risultano essere troppo selettivi. Il Comitato conclude dunque che si tratto uno «strumento di scarsa applicabilità», come anche «confermato da alcune testimonianze di amministratori giudiziari auditi» (pag. 144).

Un importante sostegno alla valorizzazione socio-economica dei beni confiscati deriva dalle politiche di coesione. Ad assumere un ruolo centrale è in questo caso l’Agenzia per la coesione territoriale (ACT) che nel 2018 ha approvato una apposita strategia nazionale. Rilevante ai fini di questa relazione è la parte del CIPE «che, nel recepire le raccomandazioni espresse in sede di intesa dalla Conferenza Stato-Regioni, ha previsto un agire differenziato per i beni confiscati che – in ragione della loro dimensione, valore simbolico, storia criminale, sostenibilità e prospettive – sono ritenuti e definiti “esemplari” e, come tali, esigenti una regìa nazionale» (pag. 145). I primi interventi in questo senso sono stati indirizzati al bene denominato “La Balzana”, un vasto appezzamento di terreno di oltre duecento ettari su cui si trovano quindici capannoni industriali e dieci villini familiari, confiscato in via definitiva a Francesco Schiavone del clan del Casalesi. Il terreno è situato a Santa Maria La Fossa (CE) e l’ACT prevede qui la realizzazione del Parco agroalimentare dei prodotti tipici della Regione Campania.

A livello generale, l’ACT ha fornito alcune informazioni sui fondi stanziati e ha sottolineato che, dal punto di vista territoriale, la maggior parte delle risorse è concentrata in Campania e Sicilia (insieme assorbono più del 70% dei finanziamenti – tutti i dati sono pubblicati sul portale “Opencoesione”).

L’ACT ha inoltre sottoscritto, protocolli di intesa con Basilicata, Calabria, Campania, Sicilia e Puglia insieme all’Agenzia e ad altri attori rilevanti al fine di realizzare azioni nei settori della legalità e della sicurezza, «ma attualmente il PON Legalità ha finanziato le azioni previste dai cinque protocolli per un importo molto inferiore rispetto alle sue potenzialità» (pag. 148), in particolare in Calabria. Le ragioni alla base dello scarso impegno sarebbero le seguenti:

  • criticità del sistema: lungo lasso temporale tra l’avvio del sequestro, la confisca definitiva e la successiva destinazione, dunque i beni arrivano alla fase di valorizzazione in condizioni di degrado e inadeguatezza strutturale e sono così richiesti profondi interventi di ristrutturazione; forte abusivismo, che allunga ulteriormente i tempi; la destinazione deve seguire solo criteri geografici e ciò comporta che gli enti locali nei cui territori si trovano moltissimi beni confiscati non sono sempre nelle condizioni di programmarne e progettarne il recupero in tempi brevi;
  • ragioni tecniche: ritardi con cui sono partiti i cinque protocolli regionali; ripetute rimodulazioni subite dal PON legalità tra il 2018 e il 2020.

Secondo il Comitato, tuttavia, tali ragioni non basterebbero a spiegare il grave rallentamento dell’erogazione delle risorse: si segnala che su tali ritardi possano giocare un ruolo le pressioni e i tentativi di infiltrazione che la criminalità organizzata attua proprio in questo tipo di procedure con l’evidente obiettivo di rallentare o far fallire il processo di valorizzazione, vero contrasto alle mafie. Il Comitato avverte che «di questo dovrà tenersi conto non solo per le opportune correzioni di tiro alle procedure vigenti, ma anche in sede di ingegnerizzazione delle politiche di vigilanza e controllo nell’erogazione dei futuri fondi europei, nazionali e, non ultimo, degli interventi previsti dal Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR)» (pag. 150).

Viene poi fatto breve cenno al PNRR, in quanto alcuni suoi punti sono destinati ad avere un impatto significativo sui beni confiscati. Risulta particolarmente rilevante la missione n. 5, in cui sono posti gli “interventi speciali per la coesione territoriale”, che comprendono anche la valorizzazione economica e sociale dei beni confiscati alle mafie: in concreto, si tratterebbe della riqualificazione di almeno duecento beni confiscati «per il potenziamento del social housing, la rigenerazione urbana e il rafforzamento dei servizi pubblici di prossimità, il potenziamento dei servizi socio-culturali a favore delle giovani e l’aumento delle opportunità di lavoro» (pag. 152-53).

L’ultimo ambito analizzato dal Comitato è il mondo delle fondazioni private e delle possibilità che queste offrono in materia di valorizzazione di aziende e beni sequestrati e confiscati, ma anche di sostegno alla gestione di queste risorse affidate a enti del terzo settore. A questo proposito, è stato audito il dottor Carlo Borgomeo, presidente della fondazione “Con il Sud”, una delle realtà più note e attive nel sostegno finanziario alle iniziative sociali del Mezzogiorno. I destinatari dei finanziamenti sono cooperative sociali, associazioni e organizzazioni di volontariato e uno dei campi di intervento – dal 2010 – è proprio la valorizzazione dei beni confiscati alle mafie: concretamente, la fondazione ha supportato la valorizzazione di 105 beni immobili confiscati, dislocati in tutto il Sud Italia. I contributi sono di norma destinati in parte a finanziare la ristrutturazione del bene, e in parte la sua gestione, per evitare che dopo la rimessa a nuovo di un immobile non ci siano poi le risorse per portare avanti le attività. La selezione avviene sulla base degli obiettivi sociali e non economici, nonché sulle prospettive di “autosostenibilità” e le attività di monitoraggio sono molto severe. Di particolare rilevanza è la verifica ex post della fondazione sul tasso di sopravvivenza dei progetti finanziati: dall’analisi condotta a distanza di quattro anni emerge che, cessati gli aiuti, i due terzi dei progetti risultano (in tutto o in parte) proseguire ed essere autosufficienti. Si segnala, tra le altre esperienze, la valorizzazione di una villa a Napoli confiscata al boss Michele Zaza che prevedeva l’inclusione lavorativa di persone disabili.

Il presidente Borgomeo ha formulato anche alcune considerazioni e proposte:

  • i bandi prevedono spesso il sostegno per la sola ristrutturazione, senza tener conto del costo di gestione e con il rischio dunque di enorme spreco di risorse pubbliche;
  • la fondazione si è trovata sovente a dover rifiutare il sostegno a progetti su beni confiscati per via della concessione troppo breve da parte dell’ente locale (a volte un solo biennio): in poco tempo, risulta impossibile produrre risultati sociali soddisfacenti;
  • occorrerebbe pensare a una destinazione diversa delle risorse economiche, ora versate sul FUG (cfr. supra, cap. 2): il denaro potrebbe essere destinato all’Agenzia per sostenere progetti al pari delle fondazioni private. Sempre parlando dell’Agenzia, Borgomeo auspica una maggiore flessibilità in considerazione della complessa materia che si trova ad affrontare.

Il Comitato conclude il capitolo evidenziando alcune criticità riguardanti diversi aspetti del tema e messi in luce da diversi attori. In sintesi, i punti fondamentali sono i seguenti:

  • L’ANCI ha segnalato quale principale problema lo stato in cui solitamente versano i beni conferiti ai Comuni e la necessità, dunque, di intervenire con ingenti opere manutentive nella quasi totalità dei casi. I Comuni possono avvalersi di fondi europei per cui però sono stati evidenziati dei ritardi. Si propone, almeno, l’istituzione di risorse ad hoc da destinare ai Comuni per la ristrutturazione degli appartamenti da usare per soggetti in particolari condizioni di disagio economico-sociale.
  • In tema di immobili, il codice antimafia prevede una dettagliata disciplina sulla destinazione, senza però alcun riferimento alle politiche e alle misure per la valorizzazione di tali beni.
  • È stata da più parti lamentata la procedura per l’accesso ai fondi comunitari e statali, considerata troppo complessa farraginosa: ci sarebbe dunque bisogno di una semplificazione e della previsione di un percorso agevolato per la realizzazione dei presidi di legalità e sicurezza del territorio.
  • Potrebbe essere utile – se non necessaria – una interconnessione tra i sistemi OpenRegio e Opencoesione, portali dell’Agenzia per i beni confiscati e dell’Agenzia per la coesione territoriale, al fine di far dialogare i dati sui beni sequestrati e le risorse erogate ed erogabili nell’ambito delle politiche di coesione.

 

Capitolo 7 (destinazione dei beni sul territorio e difficoltà degli enti locali). Secondo il Comitato era poi rilevante effettuare «uno specifico approfondimento delle dinamiche effettuali con le quali si dovrebbe centrare (e spesso non si riesce a centrare) l’obiettivo principale della legge Rognoni-La Torre, e cioè l’utilizzo a scopi sociali dei beni confiscati» (pag. 159) e per tale motivo ha audito gli enti locali, destinatari in via prioritaria dei beni immobili confiscati. L’interesse del Comitato era principalmente quello di comprendere le modalità attraverso cui gli enti locali vengono a conoscenza di beni sequestrati o confiscati sul proprio territorio; la disponibilità dei Comuni per le assegnazioni provvisorie; la concessione a enti, associazioni e cooperative; l’eventuale utilizzo dei fondi europei; l’attività di supporto ai tribunali e agli amministratori giudiziari; le criticità in sede di assegnazione.

Gli enti locali auditi hanno evidenziato diverse criticità in relazione agli immobili confiscati, già ampiamente riportate nel corso della Relazione (cfr. supra in vari punti), ma che vale la pena citare nuovamente:

  • distanza temporale eccessiva tra confisca definitiva e destinazione;
  • condizioni dei beni da destinare, spesso vandalizzati o danneggiati dall’incuria; abusivismo;
  • carenza di personale, anche qualificato, che consenta di seguire i beni confiscati o redigere il regolamento comunale;
  • bandi chiusi senza richieste da parte delle associazioni e del Terzo settore;
  • mancanza di fondi che consentano al Comune di valorizzare o anche solo utilizzare i beni confiscati o chiedere l’assegnazione provvisoria;
  • inopportunità di assegnare direttamente al terzo settore gli immobili confiscati, dovendo invece privilegiare la previa dichiarazione di interesse dei Comuni, unici a conoscenza delle realtà territoriali.

Vengono poi riportati i contenuti delle audizioni svolte. Antonio Decaro è stato sentito in quanto presidente dell’ANCI e sindaco di Bari. Nella sua prima veste ha segnalato diversi problemi: non tutti i Comuni, per esempio, hanno adottato linee guida o regolamenti comunali specifici sulla gestione dei beni confiscati e l’ANCI sta promuovendo l’adozione di un regolamento comunale tipo. Altra questione sollevata è la mancanza di pubblicità, che porta i Comuni a non ricevere segnalazioni circa l’esistenza di beni confiscati sul proprio territorio. I Comuni, inoltre, segnalano ritardi e difficoltà nell’erogazione dei finanziamenti europei e preferiscono l’assegnazione di un bene dopo la sua confisca definitiva, avendo timore che l’immobile debba poi essere restituito. Infine, è in corso una rilevazione sui 950 Comuni destinatari di beni confiscati per monitorare il loro riutilizzo e conoscere le motivazioni delle mancate assegnazioni, nonché le criticità individuate dai singoli enti locali. L’ANCI ha poi avanzato alcune proposte:

  • i proventi dei beni in locazione, oggi utilizzabili solo a fini sociali, potrebbero essere usati dai Comuni per mantenere e gestire gli immobili stessi;
  • adozione di un decreto per l’istituzione di un “Programma triennale di recupero a fini abitativi e sociali di immobili confiscati alla criminalità organizzata” con risorse dedicate;
  • attivazione di uno strumento finanziario stabile per il sostegno alla realizzazione dei progetti di gestione dei beni;
  • una attività più celere per sanare gli abusi edilizi.

L’attenzione si concentra poi sui piccoli Comuni, sentiti nella persona di Flavio De Santis, componente del direttivo dell’ANPCI (associazione nazionale piccoli Comuni d’Italia). In questi contesti, le assegnazioni riguardano spesso cascine o caseggiati in stato di degrado o in fase di costruzione e spesso, mancando i fondi, il rischio è che diventino ruderi abbandonati. Le proposte dell’ANPCI sono dunque le seguenti:

  • modificare i requisiti richiesti per la procedura di assegnazione, al fine di consentire l’accesso ai giovani e non richiedere la costituzione dell’associazione da almeno due anni e una specifica esperienza nell’area di riutilizzo;
  • modificare la durata dell’assegnazione alle associazioni, ora in genere di tre anni o meno, atteso che per rendere produttivi i terreni e creare un circuito economico virtuoso serve molto tempo; si propongono almeno 7 anni di durata (15 per alcune tipologie di beni);
  • rinnovare l’affidamento solo in caso di bilancio economico e sociale positivo e per una sola volta.

Il Comitato ha poi analizzato la vicenda emblematica di alcuni immobili confiscati al Nord e in particolare a Pojana Maggiore, un piccolo Comune in provincia di Vicenza. La sindaca Paola Fortuna ha spiegato che il Comune non ha ancora potuto avvalersi dei beni confiscati sul territorio, nonostante la forte volontà in tal senso. L’episodio riportato è simbolo della mancata comunicazione tra enti istituzionali e dei difetti di coordinamento della disciplina del giudizio di prevenzione e del procedimento, in particolare in relazione alla durata e alla mancata attenzione ai bisogni della comunità. Ma il caso di Pojana Maggiore «non è un caso limite», anzi «molti piccoli comuni del Nord Italia incontrano le medesime talvolta insuperabili ma spesso scoraggianti, difficoltà. Il problema centrale resta quello dell’informazione» (pag. 168): non esiste alcuna previsione di legge che consenta agli enti territoriali di conoscere, con la necessaria tempestività, quali immobili possano essere loro destinati, di quale consistenza siano e quali gravami debbano sopportare. Spesso i Comuni ricevono notizia dell’esistenza di beni confiscati sul proprio territorio da fonti non istituzionali, come gli organi di stampa. Da tenere sempre in considerazione è anche il problema dei creditori in buona fede, che potrebbe rendere vano tutto il lavoro effettuato dall’ente locale.

Il Comitato sposta poi l’attenzione sui Comuni del Sud, per i quali sono anche previsti programmi di sostegno specifici per il riutilizzo dei beni e che sono più frequentemente oggetto di scioglimento per infiltrazione mafiosa. Vengono raccolte esperienze di diverse realtà locali, che evidenziano i limiti della normativa vigente: Vincenzo Catapano, sindaco di San Giuseppe Vesuviano, per esempio, ha messo in luce le difficoltà nel reperire i fondi necessari alla ristrutturazione e il rischio che i beni possano dunque ulteriormente deteriorarsi. Tutti i sindaci evidenziano tale problema e rilevano, come i Comuni del Nord, la carenza di personale qualificato, gli abusi edilizi e la questione dei beni vandalizzati. Il sindaco di Marano lamenta inoltre il mancato coordinamento dei sistemi informatici (cfr. supra, in vari punti); quello di Castelvetrano sottolinea ulteriormente il problema della mancanza di fondi, evidenziando che «i cittadini di un comune sciolto per mafia sono “puniti” due volte: per la infiltrazione mafiosa e per le aliquote tributarie, successive allo scioglimento, che si attestano sui massimi» e che, per comuni come il suo accompagnati da una tale nomea, sarebbe auspicabile il riutilizzo per «un ritorno di immagine e un ritorno morale» (pag. 172).

Il Comitato conclude riassumendo i profili di maggiori criticità e ricorda lo strumento del vademecum, che potrebbe aiutare a risolvere alcuni problemi sollevati dai Comuni.

Capitolo 8 (le associazioni e le parti sociali). I beni confiscati, in quanto simboli e opportunità di lavoro e sviluppo, pongono al centro dell’attenzione anche il tema del ruolo da attribuire alle associazioni e alle parti sociali per rendere più efficace il meccanismo di gestione e destinazione. Per questo motivo, il Comitato ha audito: Confesercenti, le confederazioni sindacali maggiormente rappresentative a livello nazionale, l’associazione Libera, l’associazione “White List” e, infine, due esperienze peculiari – una Nord e una al Sud – significative per l’impegno, l’ambito di azione e la peculiarità della proposta sociale.

Il vicepresidente di Libera, Davide Pati, ha ricordato il ruolo dell’associazione nell’approvazione della legge sul riutilizzo sociale dei beni confiscati alle mafie nel 1996, le azioni di formazione e informazione aperte ai cittadini e ad altre realtà del terzo settore, il supporto agli enti locali per finalizzare le attività di riuso sociale, il contributo al Parlamento per il miglioramento delle norme e delle prassi avanzando proposte (alcune delle quali accolte nella riforma del 2017). I temi più importanti dell’audizione sono stati:

  • il valore etico della restituzione alla collettività dei beni confiscati;
  • le criticità dovute a possibili prestanome e intestazioni fittizie attraverso cui la criminalità organizzata potrebbe tornare a possedere i beni oggetti di sequestro e confisca;
  • la possibilità di danneggiamenti e atti vandalici e le difficoltà dovute a minacce;
  • il progetto Libera Terra, nato nel 2000 per le cooperative sociali.

L’audito, nell’esporre varie criticità in tema di beni confiscati, ha sottolineato la necessità che gli enti locali assicurino piena trasparenza sugli elenchi dei beni confiscati e garantiscano un controllo sull’attività dei soggetti gestori, proponendo di effettuare corsi di formazione.

Davide Pati, insieme a Valentina Fiore (in rappresentanza di Libera Terra), segnalano poi le difficoltà di funzionamento dell’Agenzia e l’urgenza di assegnare risorse e personale alle sezioni dedicate dei tribunali. Le proposte sono le seguenti:

  • estendere ai “corrotti” delle norme su sequestro e confische;
  • introdurre specifiche fattispecie penali per sanzionare le azioni di contrasto ed elusione dei sequestri e delle confische;
  • usare il FUG per soddisfare i creditori in buona fede, invece di vendere gli immobili confiscati;
  • semplificare le procedure per accedere ai finanziamenti del MISE.

Vengono poi auditi Don Massimo Mapelli ed Elena Simeti, responsabili dell’associazione “Una casa anche per te Onlus” di Buccinasco nata nel 2000. L’associazione ha sviluppato diversi interventi nell’ambito dell’accoglienza di minori e famiglie in condizioni di disagio economico e sociale e dell’organizzazione di servizi formativi ed educativi. Don Mapelli riferisce, in particolare, dell’esperienza della masseria di Cisliano, sequestrata al clan Valle nel 2010 nel corso dell’operazione Crimine Infinito. Il bene è un complesso di circa 10.000 metri quadri comprendente un ristorante/pizzeria con ampio giardino, un parcheggio e quattro appartamenti ed è stato confiscato definitivamente nel 2014, data a partire dalla quale sono iniziati una serie di atti vandalici per impedirne l’utilizzo. A quel punto l’associazione si è mossa per la creazione di un presidio a tutela del bene, grazie al sostegno del Comune. L’Agenzia ha destinato l’immobile al Comune stesso, che l’ha poi assegnato all’associazione che si è dedicata alla sua ristrutturazione con il sostegno di volontari e donazioni. Ora il bene è in parte abitato, in parte sede di corsi di formazione e mostre. Dunque, come dice lo stesso Don Massimo, «la sfida è stata quella di far diventare un bene confiscato una risorsa importante in un territorio ad alta densità mafiosa come il sud ovest milanese» (pag. 178). Lo stesso ha poi sottolineato come sia fondamentale l’assegnazione provvisoria dei beni sequestrati al terzo settore, anche se rimangono ferme le difficoltà nel reperire risorse economiche.

Viene poi presentato un altro esempio virtuoso, quello dell’associazione “Nuova cooperazione organizzata” presieduta da Simmaco Perillo. L’associazione, situata ad Aversa, aveva aperto in un bene della cooperativa un “gruppo di convivenza” dedicato ad alcuni malati dell’ospedale psichiatrico giudiziario della città. L’associazione gestisce inoltre diverse cooperative che lavorano sui beni confiscati del territorio, tradizionalmente luogo di insediamento camorristico. Il dottor Perillo ha poi evidenziato «l’importanza della destinazione sociale dei beni, avendo reso i beni confiscati aziende produttive, con conseguenti benefici in termini di occupazione e di affermazione della presenza dello Stato e della legalità in territori controllati dalla camorra» (pag 181). Da citare è anche l’iniziativa “Facciamo un pacco alla camorra”, tramite cui vengono venduti i prodotti alimentari creati e confezionati in questo contesto.

È stata poi sentita Paola Pastorino, presidente dell’associazione “Manager White List”, nata nel 2014 al fine di valorizzare le competenze dei dirigenti industriali milanesi nella gestione delle imprese sequestrate e confiscate alla criminalità organizzata. Sono stati individuati 60 manager che costituiscono una “lista bianca”, consegnata all’Agenzia e ai Ministeri dell’interno e della giustizia, con lo scopo di «restituire al mercato e alla collettività le attività economiche sequestrate e confiscate alla criminalità organizzata, attraverso la gestione delle aziende curata con la collaborazione, fin dalla prima fase del procedimento, tra il profilo giuridico dell’amministratore giudiziario e quello manageriale strategico e di sviluppo» (pag. 182). L’audita ha poi riferito di esperienze concrete poste in essere in aziende e cooperative, nonché di buone pratiche manageriali che consentono di individuare in tempi brevi i fattori di successo per possibili percorsi di sviluppo sostenibile. La dottoressa Pastorino conclude proponendo la creazione di un albo dei manager dei beni sequestrati e confiscati al quale gli amministratori giudiziari possono ricorrere.

La seconda parte del capitolo si focalizzare sulle parti sociali: come detto sopra, sono state sentite le confederazioni sindacali maggiormente rappresentative a livello nazionale. Tutti gli auditi hanno ricordato l’importanza di mantenere intatti i posti di lavoro nell’ambito delle aziende sequestrate e confiscate: Paolo Acciai della CISL ha evidenziato che non sono previsti in tale contesto ammortizzatori sociali né cassa integrazione dall’Inps. Luciano Silvestri della CGIL ha lamentato i ritardi nella costituzione, presso i tribunali distrettuali, delle sezioni di misure prevenzione e ha rappresentato l’esperienza dei sindacati coinvolti nei protocolli di intesa firmati con vari tribunali, tra cui quello di Roma: qui, nell’ambito dei sequestri originati dall’indagine Mafia capitale di cooperative, pizzerie, bar, hotel, sono stati coinvolti circa 5000 lavoratori e il protocollo ha permesso di tutelare l’occupazione e le attività produttive. L’idea è che tutti i tribunali adottino questo metodo, in quanto «non possiamo permetterci che il lavoratore assimili in sé l’idea che quando c’era la mafia in qualche modo la pagnotta la portava a casa, seppure con quei metodi, arriva lo Stato e sono licenziato e senza lavoro» (pag. 186). Inoltre, vengono spesso avanzate proposte di costituzione di cooperative per rilevare le aziende, ma mancano le risposte e il dialogo con l’Agenzia e diventa in questo modo difficile per i sindacati svolgere il loro ruolo di tutela.

I sindacati hanno stipulato accordi con gli amministratori giudiziari per l’emersione del lavoro nero, per la normalizzazione dei rapporti contrattuali e del salario e per assicurare la sicurezza sul lavoro. Francesco Maria Gennaro della UIL sottolinea poi l’importanza di nominare amministratori giudiziari che tendano alla prosecuzione dell’attività aziendale, che facciano attenzione alla sicurezza e affrontino le irregolarità e il lavoro nero, tutte azioni che richiedono molte risorse economiche: i sindacati chiedono dunque che vengano semplificate le norme di accesso al fondo di garanzia.

Confesercenti sottolinea altri aspetti critici della normativa, in particolar modo evidenzia che i beni dovrebbero essere gestiti anche da professionisti e imprenditori (cfr. supra) e che è attesa una riforma strutturale dell’organico dell’Agenzia (impossibilitata a far fronte a una mole così imponente di lavoro).

Le parti sociali, nei vari protocolli sottoscritti, si impegnano in modo particolare su due fronti:

  1. costante confronto con gli amministratori giudiziari per garantire la continuità aziendale;
  2. impegno ad attivare, dove necessario, l’accesso all’integrazione salariale e agli ammortizzatori sociali, nonché l’attuazione delle norme in materia di tutela della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro.

È da sottolineare che rimane fondamentale il problema, soprattutto nelle aziende sequestrate al Sud, del lavoro nero o dei contratti solo formalmente part-time. Il tema si collega necessariamente anche al mancato coordinamento tra linee guide impartite dalle sedi centrali delle organizzazioni di categoria e le sedi regionali e/o periferiche.

 

Capitolo 10 (la formazione). Tutte le complessità sin qui rilevate in tema di beni sequestrati e confiscati rendono necessaria una adeguata formazione per tutti gli addetti ai lavori e il Comitato ha dunque ritenuto utile svolgere una serie di audizioni anche su questo tema.

Per quanto riguarda la formazione dei magistrati, è stato sentito il dott. Guglielmo Leo, membro del comitato direttivo della Scuola Superiore di Magistratura. Il dottor Leo ha riportato che la Scuola ha rilevato «una vera e basilare necessità di informazione sugli sviluppi tumultuosi della legislazione» (pag. 223): la complessa materia e il quadro normativo così frammentato hanno infatti provocato incertezze nelle prassi giudiziarie. L’audito ha evidenziato che le formazioni in tema di contrasto alla criminalità organizzata non si sono limitate a corsi a carattere penalistico, ma sono state portate avanti iniziative interdisciplinari, ivi comprese quelle relative alla prevenzione patrimoniale. Vengono poi riportati i dati relativi al numero dei corsi effettuati e al numero dei magistrati coinvolti nelle varie iniziative, a testimonianza del grande impegno profuso dalla Scuola anche in tema di prevenzione, amministrazione giudiziaria, diritto dei terzi e provvedimenti di ablazione patrimoniale.

Il Comitato passa poi a parlare delle Forze di Polizia, grazie alle parole dei rappresentanti degli istituti di alta formazione:

  1. Scuola di perfezionamento per le Forze di polizia: preposta all’alta formazione e all’aggiornamento di funzionari e ufficiali delle forze dell’ordine italiane e straniere. Il generale Giuseppe Bottillo, direttore dell’istituto interforze, ha sottolineato l’importanza dell’offerta formativa in tema di contrasto patrimoniale alle organizzazioni criminali, elencando i vari seminari, corsi di aggiornamento e moduli dedicati al tema della prevenzione e del contrasto alle mafie, nonché della criminalità economica. È da segnalare l’esistenza di una Scuola internazionale di alta formazione per la prevenzione e il contrasto del crimine organizzato, con sede a Caserta, che eroga corsi sugli strumenti e le procedure di prevenzione patrimoniale anche alle forze di polizia estere.
  2. Scuola superiore di polizia – Ateneo di alta formazione: istituto deputato alla formazione, specializzazione e aggiornamento della Polizia di Stato. Il Comitato ha audito il vicedirettore, il dottor Giancarlo Conticchio che conferma la centralità delle misure di prevenzione nei temi dei percorsi formativi. Anche in questo caso, sono citati vari seminari e corsi di formazione, nonché un nuovo master di II livello attivato in convenzione con l’Università “La Sapienza” di Roma, volto a fornire ai neo-commissari una solida formazione teorica e un indispensabile approccio pratico attraverso l’analisi di casi emblematici.
  3. Istituto superiore di tecniche investigative (ISTI): per l’Arma dei Carabinieri è stato audito il colonnello Vincenzo Molinese. Ricordando che la lotta all’illecita accumulazione di ricchezze è obiettivo primario dell’Arma, anche il colonnello ha elencato vari corsi di formazione che pongono l’attenzione sulle migliori tecniche di indagine patrimoniale. Gli aspetti tipicamente operativi sono curati dagli specialisti del ROS (Raggruppamento Operativo Speciale) e sono molteplici i casi studio analizzati. Infine, su indicazione del Comando generale dell’Arma, l’ISTI ha redatto un vademecum operativo sulle indagini patrimoniali al fine di fornire al personale un pronto strumento di orientamento.
  4. Scuola di polizia economico-finanziaria della Guardia di finanza: è stato, infine, audito il generale Vito Gianpaolo Augelli della Guardia di finanza, impegnata quotidianamente nel contrasto alle infiltrazioni della criminalità nell’economia legale, all’accumulazione di ricchezze illecite e al riciclaggio di denaro. Assume in questo contesto, dunque, ancora più rilevanza la previsione di corsi di formazione specifici: l’obiettivo è, da un lato, rendere le indagini patrimoniali sempre più incisive e internazionalizzate; dall’altro, sviluppare le capacità dei reparti operanti di saper meglio intercettare gli interessi imprenditoriali, economici e finanziari della criminalità organizzata nelle sue forme più raffinate ed evolute. Merita particolare menzione il corso di qualificazione “investigatore economico finanziario” dedicato agli ispettori. La Scuola, inoltre, è fortemente proiettata sul piano internazionale ed è aperta alle esperienze di altri paesi, come testimonia il ruolo riconosciutole dall’OCSE nel 2014 come “International tax crime academy”. Sono stati infine promosse delle collaborazioni con la magistratura: «è stato sperimentato come una formazione comune, tra magistrati e Forze di polizia, abbia il pregio di porre i presupposti per una maggiore omogeneità dei rispettivi processi di lavoro, nonché di essere la premessa per interazioni future fruttuose basate su una comune formazione e su una migliore conoscenza reciproca di esigenze ed approcci» (pag. 231).

Il Comitato pone poi l’attenzione sulla formazione universitaria e decide di audire tre professori universitari: professor Gianluca Varraso dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, professoressa Stefania Pellegrini della Alma Mater Studiorum dell’Università di Bologna (a cui è poi stato affidato il compito di redigere il vademecum più volte citato) e professor Costantino Visconti dell’Università di Palermo. Sono state evidenziate le numerose attività di ricerca e i progetti delle università sul tema dei beni confiscati finalizzati all’elaborazione di soluzioni concrete, nonché diversi corsi universitari dedicati al tema e rivolti agli amministratori giudiziari. In particolare, l’Università Cattolica si è resa promotrice e partecipe di numerose collaborazioni con istituzioni, enti non-profit e professionisti coinvolti a vario titolo nell’attività di prevenzione dei fenomeni criminali. Il professor Varraso ha anche evidenziato l’esistenza di un Corso di alta formazione per amministratori giudiziari di aziende e beni sequestrati e confiscati (AFAG), che ha l’obiettivo di rispondere alla domanda di figure professionali qualificate in questo ambito (cfr. supra) coinvolgendo diversi esperti nel percorso formativo.

La professoressa Pellegrini dirige invece il Master di II livello “Pio La Torre”, dedicato alla gestione e al riutilizzo dei beni sequestrati e confiscati e rivolto a studenti, funzionari, dipendenti di enti locali e pubbliche amministrazioni. Il corpo docente coinvolge numerosi esperti in tutti i settori (professori universitari, magistrati, rappresentanti delle istituzioni, amministratori giudiziari) e le lezioni sono di tipo teorico-pratico. Ad avviso del Comitato, la parte più significativa del percorso formativo attiene al tirocinio che i corsisti devono svolgere al termine delle lezioni presso enti, professionisti e strutture ospitanti, ivi compresa l’Agenzia nazionale. Il Master, infine, garantisce formazione continua: sono previste delle ore di aggiornamento negli anni successivi, al fine di analizzare le novità in tema di beni sequestrati e confiscati con tutti gli studenti degli anni precedenti.

Sotto il coordinamento della professoressa Pellegrini, sono stati sottoscritti diversi protocolli, tra cui i protocolli di legalità con il tribunale di Bologna (per il riutilizzo dei beni confiscati) e con il tribunale dei minori di Bologna (per percorsi di legalità dedicati a minori destinatari della messa alla prova). La professoressa ha poi ricordato il tema della carente preparazione degli enti locali sui beni confiscati: grazie a un bando regionale, è stato possibile erogare corsi e fornire manuali e formulari che privilegiassero, innanzitutto, l’aspetto della destinazione e del riutilizzo dei beni confiscati, al fine di fornire un supporto concreto agli enti locali.

È stato infine audito il professor Visconti dell’Università di Palermo, che ha avviato una intensa formazione post-universitaria nel campo dell’amministrazione giudiziaria grazie a un protocollo stipulato nel 2010 con la Procura nazionale antimafia e l’Agenzia. In particolare, nel “Corso per amministratori giudiziari dei beni e delle aziende”, ampio spazio è riservato all’analisi delle concrete esperienze gestionali e delle migliori prassi e, anche in questo caso, sono coinvolti numerosi esperti del settore.

L’ultima parte del capitolo è dedicata alla formazione da parte degli ordini professionali. Da segnalare che si è svolto un corso nazionale di perfezionamento degli amministratori giudiziari organizzato e diretto dal Consiglio nazionale, tenutosi in varie città italiane, considerata la necessità di una formazione specifica, puntuale, continuativa e aperta anche ad altre professione, in particolare agli avvocati.

 

Capitolo 12 (criticità e proposte della Commissione). Il capitolo si pone l’obiettivo di sistematizzare le criticità e le proposte emerse nel corso della Relazione. Si tratta di argomenti già sollevati, ma che vale la pena riportare nuovamente in modo schematico. Il presupposto è che, secondo il Comitato, è necessaria una riforma organica, coordinata e coerente del sistema normativo di contrasto patrimoniale alla criminalità organizzata: il complesso quadro legislativo deriva da «da una stratificazione di interventi a carattere occasionale, attuati senza un preciso disegno di carattere sistematico» (pag. 271); manca un adeguato raccordo tra disposizioni; non sono ancora stati emanati i decreti attuativi di norme di particolare rilievo.

Il Comitato ha elencato gli obiettivi perseguiti con le proprie proposte e «le iniziative necessarie per adeguare operativamente la normativa e le strutture poste a presidio del contrasto patrimoniale alla criminalità organizzata rispetto agli obiettivi imprescindibili per un sistema giusto, moderno, efficace» (pag. 273):

  1. Certezza del diritto nell’azione di prevenzione e maggiori garanzie nell’accertamento dei presupposti per il sequestro e la confisca: qui vanno collocate le proposte di riformulazione dei soggetti destinatari delle misure di prevenzione; la modifica delle disposizioni sui proventi da evasione fiscale; il coordinamento tra i titolari dei poteri di proposta.
  2. Più ampie tutele per chi subisce il sequestro, introducendo un sistema coordinato ed efficiente di impugnazione: il Comitato propone una nuova disciplina che consenta di richiedere il riesame dei provvedimenti di sequestro di prevenzione e di applicazione dell’amministrazione giudiziaria, così come previsto per i sequestri penali ordinario ed efficiente di impugnazione.
  3. Efficienza e rapidità nelle scelte gestionali dopo il sequestro: sia in tema di prosecuzione o riconversione delle attività delle aziende, sia in tema di liquidazione delle imprese che non sono in grado di rimanere sul mercato.
  4. Un’amministrazione giudiziaria meglio proiettata sulla destinazione: si propongono modifiche per incentivare la destinazione anticipata dei beni e per favorirne l’assegnazione provvisoria.
  5. Maggiori e più tempestive tutele per i terzi in buona fede grazie alla prosecuzione dell’attività aziendale.
  6. Sostegno economico alle imprese in sequestro e potenziamento effettivo dell’Agenzia: si prevedono norme che consentano l’intervento dell’erario per sopperire alle transitorie carenze di liquidità delle imprese in sequestro; si propongono modifiche relative al personale d’Agenzia e alla nomina del direttore.
  7. Ampliamento dell’ambito applicativo delle misure di prevenzione alternative alla confisca (riformulazione più chiara del presupposti del controllo giudiziario) e rimedi alle «morti bianche» delle aziende colpite da interdittiva antimafia.
  8. Specializzazione effettiva delle sezioni misure di prevenzione e unica disciplina per sequestro e confisca.
  9. Adeguamento delle strutture telematiche interministeriali e, in generale, una gestione più attenta e rigorosa della comunicazione tra enti e istituzioni.
  10. Superamento delle contraddizioni di una disciplina formalistica e solo apparentemente severa su scelta, controllo e compensi dell’amministratore giudiziario: si propone di eliminare il limite degli incarichi e di introdurre specifici controlli sulla loro qualità, sull’attuazione del criterio di rotazione e trasparenza e sul cumulo degli incarichi. Si propongono inoltre criteri di adeguamento dei compensi.
  11. Utilizzo del Fondo unico giustizia per riqualificare beni e aziende sottratte alla criminalità: si auspica un coordinamento legislativo in tema e si propone di riorientare in maniera chiara la destinazione delle risorse verso un impiego funzionale al riutilizzo dei beni confiscati e affidati agli enti locali, spesso privi di disponibilità finanziarie indispensabili alla realizzazione degli scopi sociali previsti dal codice antimafia.

Ognuno dei predetti punti viene poi sistematicamente approfondito – ripercorrendo le criticità evidenziate nel corso di tutta la Relazione – e vengono, infine, avanzate delle proposte di riformulazione (o soppressione) delle parti della normativa che dovrebbero, a parere del Comitato, essere oggetto di modifica.

 

Capitolo 13 (iniziative concrete: elaborazione di un vademecum). L’ultimo capitolo, nel ricordare l’importanza dell’aggressione patrimoniale nei confronti della criminalità organizzata e l’enorme significato sociale del riutilizzo dei beni confiscati, pone l’accento sugli enti locali e sul loro ruolo primario in questo processo, ma anche sulle difficoltà e le criticità che devono affrontare. Il Comitato ha dunque pensato (come già ricordato più volte, cfr. supra, in vari punti) «di offrire agli enti locali uno strumento agile e di pronto utilizzo, finalizzato a far comprendere come attivare la procedura di richiesta di assegnazione di un bene immobile sequestrato o confiscato sito sul proprio territorio. Così nasce il Vademecum per enti locali per il riutilizzo e la valorizzazione dei beni sequestrati e confiscati. Si tratta di una mappa che guida l’amministratore locale in ogni suo passo» (pag. 318), dalla conoscenza dei beni confiscati sul proprio territorio a un fruttuoso riutilizzo a scopi sociali, ponendo attenzione alla trasparenza dell’intera procedura.

 

VADEMECUM per gli Enti locali
per il riutilizzo e la valorizzazione dei beni sequestrati e confiscati

L’ultima parte della Relazione è costituita dal vademecum (clicca qui per consultarlo) più volte citato, redatto dalla professoressa Pellegrini dell’Università di Bologna. Si tratta di uno strumento utile agli enti locali per orientarsi nel complesso mondo dei beni sequestrati e confiscati, perché fornisce risposte a eventuali dubbi e istruzioni da seguire. La struttura è molto semplice ed efficace:

  • la prima parte del vademecum è costituita da una serie di FAQ, che cercano di risolvere in modo concreto i problemi e le questioni che potrebbero presentarsi a un ente locale interessato a gestire uno o più beni confiscati. Vengono qui esaminati, attraverso i quesiti, tutti gli snodi procedurali e vengono proposte buone pratiche, arricchite da utili suggerimenti operativi. Si citano, a titolo esemplificativo, alcuni temi trattati in questa sezione: come ottenere in assegnazione un bene confiscato, come sapere se sul territorio ci sono beni confiscati, a chi inoltrare la richiesta di assegnazione di un bene, come trovare i fondi necessari per la sua gestione, come agire in caso di concessione a terzi. Da sottolineare è la presenza di numerose immagini e schemi che guidano gli enti locali alla scoperta del sistema Open Regio, rendendo la lettura ancora più semplice, fruibile e intuitiva;
  • successivamente, troviamo alcuni utili modelli di documenti precompilati che facilitano il lavoro delle amministrazioni locali interessate a riutilizzare i beni confiscati sul proprio territorio (come la manifestazione di interesse, il regolamento comunale o l’avviso pubblico di selezione per l’assegnazione in concessione d’uso a titolo gratuito di un immobile);
  • infine, vi è una sezione di approfondimento che tratta il tema dei beni sequestrati e confiscati in modo più ampio e rigoroso, affrontando temi quali la tipologia dei beni sequestrati, l’assegnazione provvisoria di un bene, la destinazione degli immobili confiscati, le opportunità e le fonti di finanziamento.

(A cura di Sara Noto, studentessa Master APC dell’Università di Pisa)