Educare, non punire. Il rapporto tra giovani e legalità

L’estate appena trascorsa e l’autunno da poco iniziato verranno ricordati come le stagioni in cui è emersa la fragilità pericolosa della gioventù e dell’infanzia del nostro paese. Tanti, troppi i casi di violenza che li hanno visti protagonisti e vittime. La risposta istituzionale ha puntato principalmente su politiche centrate sulla repressione e sul potenziamento degli strumenti di controllo e di punizione. Non si nega la necessità soprattutto nelle periferie, dove principalmente sono emerse le criticità di una maggiore presenza dello Stato, ma se ne chiede anche altre modalità, attraverso la cura dei diritti all’educazione, all’istruzione e alla cultura previsti nella Costituzione. Dal presente al futuro è lo sguardo che apre il professor Alberto Conci, coinvolto in numerosi progetti di cittadinanza attiva rivolti alle nuove generazioni.

Il contributo di Alberto Conci*

Gesualdo Bufalino era un uomo di immensa cultura. Amico di Leonardo Sciascia, aveva passato la sua vita a Comiso, in Sicilia, dove faceva l’insegnante. Morì a 76 anni, nel 1996, in un incidente stradale. Bufalino, che era uno studioso schivo e profondissimo, divenne improvvisamente famoso quando nel 1981 venne pubblicato un suo romanzo, Diceria dell’untore, che aveva iniziato a scrivere trent’anni prima e che gli valse il premio Campiello.

Ciò che lo contraddistingueva non era solo la sconfinata cultura, ma anche l’impressionante lucidità dello sguardo: fra le mille cose che ci ha lasciato vorrei ricordare poche sue parole, ormai famosissime: «La mafia sarà vinta da un esercito di maestre elementari». C’è in queste parole, pronunciate da un uomo che insegnava in un istituto magistrale, un’intuizione fulminante: una delle forme di violenza e di illegalità più devastanti per la convivenza civile non è una fatalità, ma è, come diceva Falcone, un fatto umano che avrà un termine e potrà essere vinto con la più efficace delle armi: l’educazione da parte di un esercito di maestre elementari.

Un’immagine che richiama le parole di Paolo Borsellino, il quale riteneva che la mafia sarebbe stata vinta nel momento in cui i giovani le avessero tolto il consenso: «Se la gioventù le negherà il consenso – sosteneva – anche l’onnipotente e misteriosa mafia svanirà come un incubo». Come dire che anche la violenza che appare più invincibile e più onnipotente si sfalda come la nebbia attraversata dal sole se insegniamo e facciamo sperimentare ai bambini e ai giovani il valore di una convivenza fondata sulla legalità costituzionale e sul rispetto dell’altro.

La tentazione della violenza

Perché prendo spunto da queste riflessioni, che magari qualcuno potrebbe sentire come lontane da noi nel tempo e nello spazio? Perché esse, che sono nate in una terra insanguinata che conosceva bene i disastri della violenza, sono la risposta più efficace a coloro – e sono tanti – che nel nostro Paese pensano che l’unico modo per sradicare la violenza sia la sottocultura della repressione. Rovesciando le parole di un manifesto di molti anni fa, lo slogan politico e sociale che oggi sembra avere più fortuna potrebbe essere questo: “punire, non educare”.

A me, che in mezzo a ragazzi e ragazze ho passato tutta la vita, questa prospettiva appare assurda semplicemente perché è inefficace, non colpendo la radice del problema e illudendosi di estirparlo togliendo di mezzo chi quel male ha commesso. È una tentazione molto diffusa quella di menar le mani, o di promettere di menarle, per risolvere i problemi.

Ma quando si parla dei più giovani, e non solo di loro, dobbiamo essere chiari su un punto: se l’unica risposta che siamo in grado di mettere in campo di fronte alla devianza è la violenza repressiva, abbiamo fallito. Anche se magari ci sembra che la nostra violenza sia una risposta legittima.

So benissimo che esiste una quota di violenza che anche le società democratiche consentono per proteggere i cittadini, affidandone il monopolio alle forze dell’ordine, e la Costituzione stabilisce anche per il carcere l’obiettivo della rieducazione. Come ha scritto su La Stampa la giudice Paola Di Nicola Travaglini, però, di fronte alla violenza «abbiamo bisogno di strumenti principalmente culturali».

La risposta nell’istruzione

In questa prospettiva è necessario mettersi nell’ordine di idee che investire nell’educazione e nell’istruzione non sono soldi buttati, ma è l’unica garanzia per formare la coscienza civile dei cittadini. E questo investimento educativo non è un affare dei privati o di qualche associazione, ma è il compito più lungimirante per uno Stato, perché così si costruisce la trama di quello che sarà il tessuto di una società.

Paradossalmente a volte sembra che di questa semplice verità siano consapevoli più i regimi dittatoriali (che sull’educazione dei giovani e sulla propaganda hanno investito sempre senza risparmio di risorse!) e le organizzazioni criminali (per le quali i giovani sono manovalanza a basso costo) che non uno Stato che poggia su una costituzione democratica. Certo, la repressione fa sempre effetto, rispetto all’educazione, perché interviene bloccando con la forza ciò che è inaccettabile per la convivenza. E lo fa in modo vistoso.

Ma quando tiriamo un sospiro di sollievo per un problema “risolto” con il ricorso alla forza, un minuto dopo dovremmo cominciare a lavorare sul piano educativo perché non si ripeta. Perché, vale la pena di sottolinearlo ancora una volta, la struttura di un Paese è data dalla cultura che plasma la convivenza e soprattutto dal valore che si attribuisce all’educazione alla convivenza.

E valore vuol dire anche investimenti, perché si investe su ciò in cui si crede. Quanto ne siamo consapevoli in questo Paese? Non lo so. È come se non riuscissimo a liberarci dall’idea che l’educazione serva a poco e che la repressione sia l’unica arma efficace contro la violenza: vale per la violenza contro le donne, che è una piaga terribile di cui vediamo solo la punta dell’iceberg, vale per le babygang.

Il coraggio di guardar lontano

Il problema è che alla potenza trasformatrice dell’esercito di maestre elementari e al rifiuto del consenso da parte dei giovani di cui ci hanno parlato rispettivamente Bufalino e Borsellino forse la maggior parte degli italiani non crede proprio. Perché crederci significa avere il coraggio di guardare lontano.

Ci fu un breve momento, durante il maxiprocesso di Palermo, in cui Giovanni Falcone confessò felice: «La gente è con noi». Ma poi dovette fare i conti con le proteste della cittadina infastidita dalle sirene della scorta e con l’opposizione di chi avrebbe dovuto sostenere il suo lavoro dentro la magistratura e dentro le istituzioni politiche.

Ogni tanto mi chiedo se la contrapposizione fra quel «la gente è con noi» e la solitudine in cui si trovava quando cinquecento chili di tritolo lo uccisero a Capaci assieme a Francesca Morvillo, Rocco Dicillo, Vito Schifani e Antonio Montinaro, non sia esattamente l’immagine del nostro Paese.  Che non sa credere mai fino in fondo nella possibilità di contrastare la violenza con gli strumenti dell’educazione e della legalità costituzionale sui quali poggiano l’etica pubblica, il senso di comunità, il riconoscimento del valore delle relazioni e del bene comune.

Non credo tuttavia che ci resti solo lo spazio della rassegnazione di fronte alla dilagante demagogia della repressione come soluzione di ogni problema. Mi sembra piuttosto che si debba ostinatamente continuare a far leva sulla razionalità giuridica della costituzione, sull’educazione al bene comune, sul rispetto della persona come fondamento della convivenza. Magari, direbbe don Milani, non riusciremo a salvare tutti. Ma almeno avremo salvato qualcuno e ci saremo salvati l’anima. Che non è poco.

* insegnante impegnato da anni nella formazione alla cittadinanza attiva e responsabile, curatore del libro “Se la gioventù le negherà il consenso”

* * (articolo tratto da Cooperazione tra Consumatori, Mensile della cooperazione di consumo trentina, ottobre 2023).

Condividi