Può il dolore per l’uccisione di un familiare da parte di un killer di mafia diventare il motore di un impegno civile nel contrasto alle organizzazioni mafiose? A questa domanda hanno provato a rispondere le protagoniste del terzo incontro del progetto “Donne e antimafia”, promosso dal Dipartimento Pari opportunità della Regione Lazio e da Avviso Pubblico.
«Questo terzo momento di riflessione è parte di quella strada di ricostruzione della testimonianza per mantenere vivo il ricordo delle vittime – ha spiegato Enrica Onorati, assessora alle Pari opportunità della Regione Lazio, durante il suo intervento introduttivo -. È importante diffondere questo sacrificio, che è un sacrificio sia delle vittime sia dei loro familiari: il dolore che si fa contenitore e contenuto di un percorso; lo stesso dolore che non abbandona mai i familiari, però, è forse la leva che spinge a riverberarlo in un’ottica positiva di lotta attiva contro le mafie, ma anche contro le diseguaglianze e le ingiustizie. Per noi è importante essere accanto a queste donne, per le quali la memoria diventa impegno».
E questo percorso deve guardare in avanti, in un orizzonte di speranza perché quello che è accaduto «ai nostri cari non accada mai più ad altri», commenta Daniela Marcone, figlia di Francesco Marcone, Direttore generale dell’Agenzia delle Entrate di Foggia, ucciso sulle scale di casa il 31 marzo 1995 per aver denunciato una rete di criminali. «L’immagine di papà riverso sulle scale di casa è l’ultima immagine che mi ha accompagnato per molti anni, cristallizzata nella mia memoria. Ero come bloccata. Ma grazie all’impegno da cittadina e poi all’interno di Libera sono riuscita a riconnettere le due immagini di papà, quella di prima e quella di quel giorno».
«Sicuramente l’essere figlia di una persona uccisa dalla violenza mafiosa, che esiste e vive nel mio territorio, ha dato sostanza al mio impegno. Probabilmente in altre circostanze avrei scelto un’altra ragione di impegno, ma ho scelto questa perché sono stata bloccata da quello che è accaduto. Dopo dieci anni di ricerca della verità e dopo l’ennesima archiviazione della vicenda giudiziaria di papà, ho deciso che era arrivato il momento di cambiare il mio modo di impegnarmi come cittadina e di accogliere l’invito di Libera. Da lì memoria e impegno si sono incontrate attraverso i percorsi di cittadinanza attiva e non solo attraverso il dolore».
Ma c’è anche la difficoltà di muoversi e di agire in alcuni territori, difficoltà che deriva anche spesso da un isolamento e da una solitudine dovute all’incomprensione per quanto accaduto. È il caso di Michela Pavesi, zia di Cristina Pavesi, studentessa di 21 anni dilaniata da una bomba il 13 dicembre 1990. L’ordigno era stato piazzato da Paolo Pattarello e Felice Maniero – capo della mafia del Brenta – sul treno accanto a quello su cui viaggiava Cristina.
«Ogni volta il ricordo per me è sempre estremamente doloroso, anche in questo territorio. In fin dei conti qui nessuno parlava di mafia. E quando ancora adesso ne parlo vengo attaccata. Pochi giorni fa – racconta Michela Pavesi – ho ricevuto l’ennesimo attacco via social perché mi si dice che quella di Maniero non era mafia. Ma come si può continuare a dire che era un bravo ragazzo che in fin dei conti non ha fatto niente di male e che mia nipote è morta per caso, perché lui non voleva ucciderla? Probabilmente non avevano pianificato l’uccisone di Cristina, ma l’assalto al treno l’hanno fatto col tritolo e coi bazooka».
«Come si fa ancora a disconoscere che quella era una mafia?», si chiede ancora Michela Pavesi, che sente il peso civile della solitudine di fronte alla quale soprattutto le precedenti generazioni ancora lasciano lei e gli altri familiari vittime di mafia. «Non si può non ammettere che il nostro è un territorio difficile da questo punto di vista. Anche gli adulti, che sono quelli che mi attaccano di più, vanno aiutati a capire qual è la verità. I ragazzi invece – ammette Michela – sono aperti e capiscono il messaggio forte della mia testimonianza. Sono loro la ragione per cui non ho paura di Felice Maniero e del potere criminale».
I giovani sono semi di bellezza e di speranza, e si connettono con quegli stessi semi rievocati da Shobha Battaglia, la figlia di Letizia Battaglia, occhi e cuore di Palermo e simbolo dell’impegno civile contro le mafie, durante i funerali della straordinaria fotografa a cui questo incontro è stato dedicato. Sono sempre quei semi che possono fare molto contro quella solitudine civica che spesso accompagna chi prova a portare agli altri a propria testimonianza, non già solo del dolore per la perdita di una persona cara, ma della memoria che serve per costruire un percorso comune di cambiamento. «Si pretende dai familiari delle vittime un’emotività che invece a volte è solo rabbia ed esigenza di spiegare cosa sono le mafie. In questo modo, però, non si riesce a fare un passo avanti in una narrazione giusta del passato – conclude Daniela Marcone – perché va spiegato che la testimonianza è un dono e che la memoria serve a conoscere».
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