Il bilancio in chiaroscuro dell’anticorruzione: la Relazione dell’Anac al Parlamento

di Alberto Vannucci, docente di Scienza Politica all’Università di Pisa

dsc_0052_16751083344_oIl 2 luglio 2015, il Presidente dell’Autorità nazionale Anticorruzione (Anac), Raffaele Cantone, ha presentato la Relazione al Parlamento, soffermandosi sulle luci e sui parziali successi conseguiti, ma non nascondendo zone d’ombra, ritardi e ambiguità delle politiche di prevenzione. Grazie al Rapporto disponiamo per la prima volta di dati aggiornati per comprendere se e in quale misura si siano conseguiti risultati di sorta nella lotta alla corruzione.

Forse la principale intuizione contenuta nella Relazione può sintetizzarsi così: “L’Autorità ha maturato la convinzione che la corruzione possa essere efficacemente contrastata con interventi e strategie di tipo ‘sistemico’”. Contro una corruzione sistemica, la risposta va coerentemente cercata in una politica anticorruzione “organizzata”, ossia attrezzata per fronteggiare manifestazioni endemiche di illegalità politico-amministrativa. Con le parole di Cantone: “La corruzione non può essere affrontata in modo unilaterale, ma richiede interventi plurimi e contestuali; una repressione che funzioni, una prevenzione capace di inserire nel sistema gli anticorpi e un cambiamento culturale che comporti una maggiore consapevolezza dei cittadini”.

Nella Relazione non mancano di essere segnalate aree di intervento in cui affiorano valutazioni più incoraggianti sugli esiti conseguiti. In particolare, nelle politiche per la trasparenza amministrativa si riscontra un livello di pubblicazione dei dati “molto elevato e quasi prossimo alla totalità delle amministrazioni, con riferimento alla grande maggioranza degli obblighi previsti dalla legge”, pur con il vincolo di una “scarsa attenzione alla qualità e alla completezza dei dati”. Pesa l’orientamento dominante nelle amministrazioni pubbliche a vivere la trasparenza come ennesimo aggravio di adempimenti formalistico-burocratici, ma è confortante soprattutto la crescente consapevolezza dei cittadini sulle potenzialità dello strumento, che li ha indotti a frequenti ed efficaci segnalazioni, nel 68% dei casi “a titolo personale”, che hanno sollecitato l’Anac a intervenire e le amministrazioni colte in fallo ad adeguarsi.

Nell’attività di prevenzione e supervisione sui contratti pubblici l’Anac vanta risultati soddisfacenti nella “vigilanza collaborativa”, attivata su richiesta delle stesse stazioni appaltanti, che configura una vera e propria “rivoluzione copernicana” anche a livello di cultura amministrativa: anziché censurare ex post comportamenti illeciti, infatti, l’Autorità viene attivata consensualmente per prevenire ex ante le criticità, accompagnando le stazioni appaltanti verso scelte corrette e trasparenti e scoraggiando la partecipazione di operatori scorretti.

Le valutazioni si fanno più ambigue, ed affiora la delusione per quella che ad oggi somiglia ancora a un’occasione mancata, quando nella relazione si analizza il nucleo delle politiche anticorruzione. Si prendano i piani triennali per la prevenzione della corruzione (PTPC), che di quelle politiche sono lo strumento chiave: “la qualità di tali documenti in termini di metodo, sostenibilità ed efficacia appare sostanzialmente insufficiente”. Con ogni evidenza, infatti, essi sono stati interpretati dalla quasi totalità delle amministrazioni come un fastidiosissimo obbligo di legge, e di conseguenza lo sforzo prodotto per adempiervi non ha prodotto che carta. I numeri sono deludenti. Dopo un anno dalla scadenza prevista ancora non v’è traccia di PTPC nel 10% della amministrazioni. La rotazione del personale operante in aree a rischio è stata applicata poco e male. Solo il 61% di un campione di amministrazioni ha provveduto ad attivare le procedure per la raccolta di segnalazioni di illecito da parte dei dipendenti.

Le amministrazioni sul versante dell’anticorruzione rimangono sostanzialmente “cieche”, visto che oltre l’80% di esse non ha operato alcuna analisi (sociale, criminologica, economica, etc.) del contesto esterno in cui operano, e il 90% non ha provveduto a realizzare almeno una puntuale mappatura dei propri processi decisionali interni. Il vero pilastro del PTPC, ossia il calcolo del rischio corruzione nei propri processi decisionali, è stato ignorato del tutto dal 35% delle amministrazioni, applicato in modo inefficace nel 45% dei casi. Solo il 15% della amministrazioni si è preoccupato di integrare il PTPC con il piano della performance come prevede il Piano nazionale anticorruzione (PNA), l’80% si limita a richiamare genericamente il Piano triennale per la trasparenza. L’80% delle amministrazioni non ha previsto autonomamente ulteriori aree a rischio corruzione accanto a quelle previste dal PNA. In più del 60% dei casi non sono neppure previsti meccanismi di monitoraggio interno dei PTPC. Per quanto condivisibile, suona allora un po’ forzato l’appello finale: “Questi primi risultati non devono portare alla conclusione che i PTPC siano inutili, ma al contrario devono incentivare a incrementare gli sforzi a tutti i livelli affinché tali strumenti siano utilizzati in maniera corretta, responsabilizzando i diversi attori in termini di definizione e, soprattutto, attuazione delle misure di prevenzione”.

Si potrebbe tuttavia aggiungere un ultimo tassello. Anche l’Anac ha bisogno di antenne utili a captare almeno alcune delle tante anomalie, distorsioni, inefficienze in cui si annida la corruzione, attraverso l’elaborazione di indicatori di aree, processi e settori a rischio. Tra gli spunti più interessanti della Relazione vi sono proprio alcune rilevazioni empiriche – pochissime, in verità – come l’indagine condotta assieme all’Istat sugli appalti pubblici, dalla quale emerge tra l’altro che il 34% delle imprese è assuefatto o rassegnato al punto da considerare “la corruzione è parte del gioco”, mentre nei servizi di informazione e comunicazione l’80% delle imprese ritiene il capitolato della gara predisposto ad hoc per favorire un concorrente.

Occorrerebbe moltiplicare e affinare simili strumenti di analisi per la definizione di fattori di rischio corruzione, per aree geografiche e settori di attività. La disponibilità di queste conoscenze potrebbe infatti consentire all’Anac di indirizzare in modo mirato le proprie attività di vigilanza, e alle singole amministrazioni di predisporre adeguati meccanismi correttivi nella gestione dei propri processi decisionali. Ma questo richiede un investimento ulteriore, coerentemente con la “rivoluzione copernicana” propugnato dalla stessa Anac, nella direzione di una diversa cultura amministrativa, orientata non tanto al soddisfacimento di criteri di adempimento giuridico formale, quanto a una visione di più ampio respiro, interdisciplinare, capace di guardare ai risultati conseguiti – anche nella prevenzione della corruzione – e ai prodotti finali di un’azione pubblica strettamente orientata al perseguimento del bene comune.

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