ERGASTOLO OSTATIVO. LO STATO ALLA PROVA CON I DIRITTI

Il 31 ottobre il Governo ha presentato un decreto-legge per avviare la riforma della disciplina prevista dall’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario, più noto come “ergastolo ostativo”. Il testo è stato trasmesso alla Corte costituzionale che, oltre un anno fa, decretando l’incostituzionalità di una parte della norma, aveva rimandato al legislatore la riscrittura della stessa. Cosa ha rappresentato per la giustizia italiana questa normativa e cosa potrebbe cambiare qualora venisse approvata dalla Corte e successivamente dalle camere la riforma proposta? La professoressa Stefania Carnevale in un dialogo con Avviso Pubblico, ha risposto, offrendo una disanima puntuale sul passato e il futuro della legge, che divideremo in due AP-profondimenti.
a colloquio con Stefania Carnevale *

Devo premettere che l’art. 4 bis è una delle norme più complesse del nostro ordinamento penitenziario. Per orientarsi nei meandri della sua disciplina e comprendere il senso delle modifiche appena varate, occorre ripercorrerne la storia. Nata come strumento per stimolare la collaborazione con la giustizia delle persone detenute già condannate in via definitiva, ha mostrato subito la sua anomalia: la collaborazione, in Italia come in tutti gli altri paesi in cui si è cercato di sollecitarla per via normativa, viene tradizionalmente incentivata allettando il potenziale dichiarante attraverso dei premi di diverso ordine.

Ad esempio con sostanziosi sconti di pena se si collabora prima della condanna (art. 8 l. 203/1991, oggi trasfuso nell’art. 461 bis.1 co. 3 c.p.); se si è già condannati, con la possibilità di fruire di benefici penitenziari molto prima degli altri detenuti, quando il contributo prestato agli inquirenti è di speciale rilevanza (così la l. 82/1991 sui super-pentiti, così come modificata nel 1992 e poi  nel 2001: https://www.normattiva.it/uri-res/N2Ls?urn:nir:stato:legge:1991-03-15;82). Nel 1992, all’indomani delle drammatiche stragi di quella terribile estate, venne introdotto un meccanismo del tutto insolito e molto problematico: la collaborazione diventava la condizione senza la quale non si poteva accedere a nessuna delle misure di progressiva risocializzazione previste dalla legge come fisiologico sviluppo della pena detentiva.

La negazione del diritto alla speranza

Questo meccanismo, applicato anche agli ergastolani, è andato indirettamente ad incidere sul diritto fondamentale che sorregge la costituzionalità della pena perpetua: dopo un congruo numero di anni di carcerazione, il condannato deve avere la possibilità di chiedere al giudice un esame dell’andamento del percorso rieducativo, a cui potrebbe seguire, se ve ne sono le condizioni, un vigilato riacquisto della libertà mediante la misura della liberazione condizionale.

Senza questa chance, la pena dell’ergastolo diventa immodificabile, situazione incompatibile con quanto imposto dalla nostra Costituzione (articolo 27 comma 3) e dalla Convenzione europea dei diritti umani (articolo 3). Nel nostro sistema l’ergastolo è legittimo solo se c’è la possibilità – non la garanzia – di ottenere un giorno la liberazione condizionale. Il diritto alla speranza di reinserimento sociale vale anche per chi ha commesso i reati peggiori: dopo il giudizio, la condanna e un adeguato periodo di espiazione della pena in carcere si deve poter schiudere la via del ritorno graduale nella società, se il giudice ritiene che ve ne siano i presupposti.

L’art. 4 bis, a partire dall’estate del 1992 ha negato in radice questa possibilità in assenza di collaborazione con la giustizia. La disciplina originaria si applicava a un pugno ristretto di reati: mafia, terrorismo, traffico organizzato di stupefacenti, sequestri di persona a scopo di estorsione. Negli anni, il catalogo di reati per cui vige un netto divieto di accesso a strumenti progressivamente risocializzativi si è andato ampliando in modo eccessivo e incoerente. Allora come oggi, comunque, destinatari del divieto possono essere tanto gli ergastolani quanto i condannati a pene temporanee. Anche nel secondo caso vi sono controindicazioni: se non si collabora, la pena va scontata completamente in carcere sino al rientro, brusco, in società, senza una controllata (e consigliabile, anche per la sicurezza collettiva) gradualità.

L’incidenza nel mondo penitenziario 

Devo sottolineare che l’applicazione di misure di progressivo reinserimento (dai permessi premio sino alla liberazione condizionale) nel nostro sistema non è mai automatica: oltre alla necessità di scontare un certo numero di anni di detenzione, si richiede sempre un vaglio giudiziale attento e severo sui percorsi compiuti e sulla pericolosità sociale del richiedente. Inoltre, per ogni misura alternativa o beneficio, ci sono sempre una serie di regole da rispettare e relativi controlli.

I primi permessi, ad esempio, possono essere anche solo di poche ore, in zona prossima al carcere e casomai accompagnati da qualche figura terza che guidi il detenuto nel primo contatto con il mondo libero. Nel 1991, quando venne innestato nella legge penitenziaria l’embrione dell’art. 4 bis, i reati che vi comparivano non erano «ostativi» al progressivo accesso a percorsi extramurari. Si richiedeva solo, in assenza di collaborazione, di dimostrare altrimenti la rottura dei legami con l’organizzazione criminale di riferimento.

La collaborazione non era insomma prevista come condizione senza la quale, come accaduto dall’estate del 1992 in poi, non poter nemmeno presentare un’istanza al giudice. L’introduzione di un radicale divieto ha comportato una profonda rivoluzione nel mondo penitenziario. Basti pensare a come all’epoca ci fossero detenuti, anche per reati di mafia, che usufruivano proficuamente di permessi o misure alternative, avendo avviato un positivo percorso di recupero sociale.

Ma tutte le misure in atto andavano subitaneamente revocate in assenza di collaborazione. Si trattava, e si tratta, di un’anomalia. Chi lavora in questo campo sa bene che è proprio tramite progressivi e vigilati esperimenti all’esterno che si possono meglio valutare i reali cambiamenti dei condannati e l’effettivo distacco dal contesto criminale di appartenenza.

Come si è espressa negli anni la Corte costituzionale

La collaborazione è diventata così requisito senza il quale una parte dei detenuti ha perso il diritto ad essere valutata da un giudice sugli esiti del cammino rieducativo. La Corte costituzionale si è mostrata da subito perplessa di fronte a questa disciplina. Il nuovo meccanismo è stato oggetto di ripetuti ritocchi da parte della giurisprudenza costituzionale, che per anni ne ha tuttavia salvato il nucleo centrale. Nella prima pronuncia in materia (306/1993), resa nel pieno del drammatico periodo delle stragi, la Corte tenne conto di questo contesto.

Si aveva una sete estrema di informazioni che permettessero di decifrare struttura, dinamiche interne, programmi criminali delle organizzazioni mafiose, per combatterne la violenza inaudita. Nondimeno, la stessa Corte rilevò come introdurre un divieto di accesso ai percorsi esterni senza collaborazione rendeva il sistema penitenziario, che è retto dal principio rieducativo, piegato alle necessità dell’accertamento processuale. Particolarmente grave sembrò interrompere bruscamente i percorsi di risocializzazione già intrapresi, tanto che su questo punto la norma fu dichiarata ripetutamente illegittima (Corte cost. sentt. 306/1993, 504/1995, 445/1997, 137/1999).

La giurisprudenza costituzionale ha inoltre imposto delle rilevanti distinzioni, introducendo il discrimine della collaborazione impossibile e inesigibile: non si possono sottoporre al regime ostativo coloro la cui collaborazione non serva perché gli inquirenti hanno già accertato integralmente fatti e responsabilità, o coloro che non possano dare contributi utili a causa del ruolo secondario rivestito nell’organizzazione (Corte cost. 357/1994, 68/1995).

Nonostante i dubbi di legittimità, negli anni è stato progressivamente ampliato dalla legge il numero dei reati a cui si applica il divieto di percorsi esterni in assenza di collaborazione. Si tratta di reati molto diversi tra loro, per natura e gravità: dal commercio illegale di tabacchi, alla violenza sessuale di gruppo, alla pedopornografia, al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina sino alla recente aggiunta dei reati contro la pubblica amministrazione, dalla corruzione al peculato.

In molti di questi casi la collaborazione non è un elemento così cruciale come nel contrasto alle mafie. La violenza sessuale di gruppo, ad esempio, resta un reato orribile, ma l’applicazione del regime ostativo a chi lo ha commesso dà il senso della trasformazione della norma in un contenitore eterogeneo e poco coerente, simbolo di un sistema basato sul solo carcere e che ripudia in un numero sempre maggiore di casi l’idea di graduale risocializzazione.

La giustificazione possibile 

Per anni, la Corte costituzionale ha comunque dichiarato la legittimità del meccanismo, ritenendo che non impedisse radicalmente la fruizione di benefici, essendo percorribile la via della collaborazione. Se da subito è stata rifiutata la corrispondenza tra collaborazione e «ravvedimento», riconoscendosi i possibili fini utilitaristici e opportunistici di chi cooperi con la giustizia, si è invece a lungo accettata l’equazione secondo cui chi non collabora è da considerare, senza alcuna possibilità di prova contraria, ancora affiliato all’organizzazione criminale di provenienza.

L’assunto deriva dalla pretesa di una fedeltà esistenziale propria delle associazioni mafiose. Se dalla mafia si esce solo se si collabora o si muore, non importa cosa sia successo dentro e fuori dalle mura carcerarie nei 20, 30 o più anni in cui il condannato ha espiato la sua pena. L’opera rieducativa, senza collaborazione, sfuma così nell’irrilevanza. Il meccanismo ostativo porta a presumere per legge (senza accertamenti concreti, caso per caso) che, se non si è mai collaborato, qualunque contatto con il mondo esterno, foss’anche solo qualche ora di permesso per un incontro con un familiare o per sostenere un esame universitario, preluderebbe a un rientro nell’organizzazione.

Tuttavia, anche quando un’associazione criminale pretenda un’adesione imperitura e i suoi affiliati vi si impegnino, non è detto che, dopo decenni di detenzione, il patto venga immancabilmente mantenuto. Non si deve confondere il codice di un’organizzazione con il suo effettivo rispetto da parte di tutti coloro che vi hanno aderito, anche dopo lunghe carcerazioni e i tentativi rieducativi esperiti.

La mancata collaborazione, d’altro canto, potrebbe essere dovuta a ragioni altre rispetto al persistente legame con l’organizzazione, come la volontà di proteggere familiari da ritorsioni violente, o di non sottoporli ai profondi rivolgimenti della vita che i programmi di protezione implicano. Proprio la valorizzazione del tempo passato e dei trattamenti rieducativi impartiti, insieme alla considerazione di queste possibili ragioni di legittimo silenzio, hanno fatto franare la presunzione assoluta di persistente affiliazione di chi non abbia mai collaborato con la giustizia.

Le due sentenze del cambiamento

Si è dovuto attendere molto per una revisione legislativa del meccanismo dell’ostatività.  Il legislatore ha dovuto alla fine provvedere sospinto da una serie di sentenze delle “grandi” Corti. La Corte europea dei diritti dell’uomo, anzitutto, con la sentenza Viola del 13 giugno del 2019 ha condannato l’Italia per violazione dell’art. 3 (divieto di trattamenti inumani e degradanti) della Convenzione europea dei diritti umani. In quella pronuncia la Corte ha dubitato dell’effettiva libertà della scelta di non collaborare e ha contestato l’equivalenza tra il mancato aiuto agli inquirenti e la pericolosità sociale del detenuto, osservando che il definitivo distacco dall’ambiente criminale potrebbe essere dimostrato anche da altri elementi.

La presunzione assoluta di persistente affiliazione ha per effetto di privare l’ergastolano di ogni realistica prospettiva di liberazione, anche a fronte di positive evoluzioni della personalità e gli impedisce ogni possibilità di riscatto. La lotta al flagello mafioso non può giustificare deroghe al divieto assoluto di punire con trattamenti inumani e degradanti. Per la Corte europea, sono tali quelli che impediscono in radice la possibilità di riguadagnare un giorno la libertà, ledendo così la dignità umana, valore al centro del sistema convenzionale. (https://hudoc.echr.coe.int/eng?i=001-194473, §§ 1l6-138).

Nell’ottobre dello stesso anno la Corte costituzionale, con la sentenza n. 253 del 2019, ha dichiarato illegittimo l’art. 4 bis nella parte in cui non consente a chi non collabora con la giustizia di chiedere e ottenere permessi premio, il primo gradino verso il progressivo reinserimento in società. La Corte costituzionale ha preso le mosse dalla incomprimibile libertà di non collaborare, sottolineando la grande differenza che corre tra i premi per chi renda utili dichiarazioni agli inquirenti e la negazione di diritti fondamentali per chi non le renda. Quest’ultima è incompatibile con i principi costituzionali.

Quanto alla presunzione di pericolosità del non collaboratore, è da ritenere ragionevole e accettabile solo se di carattere relativo e non assoluto. Si può insomma presumere che chi non collabori con la giustizia resti legato al mondo criminale di appartenenza, nonostante lunghe carcerazioni. Ma non si può impedirgli di dimostrare il contrario davanti a un giudice. È possibile che alcuni, molti o quasi tutti gli affiliati restino intimamente legati all’associazione di appartenenza.

Ma presumere per legge, in anticipo e senza possibilità di prova contraria, che tutti lo siano, per il solo fatto di non aver reso dichiarazioni utili ai processi, e a prescindere dai concreti percorsi di recupero intrapresi, si pone in contrasto con il nostro sistema costituzionale. Si deve perciò consentire al condannato di provare la rottura del vincolo con l’associazione criminosa e l’assenza del pericolo del suo futuro ripristino. Sono elementi molto difficili da accertare, con oneri molto gravosi a carico del condannato.

Tuttavia, dopo questa storica sentenza, alcuni ergastolani ostativi hanno potuto usufruire di permessi premio, previa scrupolosa valutazione dei requisiti richiesti dalla Corte costituzionale. L’anno successivo la prima sezione penale della Corte di cassazione ha sollevato una nuova questione di legittimità costituzionale dell’art. 4 bis, vertente questa volta sulla impossibilità di concedere la liberazione condizionale, misura in grado di restituire la libertà, agli ergastolani ostativi.

La risposta della Corte

La Corte costituzionale, con l’ordinanza n. 97 del 2021, sulla scia di questi due importanti precedenti, ha richiamato le ragioni che rendono incompatibile con la Costituzione e con la Convenzione europea la presunzione assoluta, e quindi inconfutabile, di pericolosità derivante dalla mancata collaborazione, senza tuttavia giungere a dichiarare l’incostituzionalità della norma.

Consapevoli che la collaborazione ha un ruolo chiave nel contrasto a gravi manifestazioni criminali e che una semplice pronuncia di illegittimità, data la complessità raggiunta negli anni dal sistema delineato dall’art. 4 bis, avrebbe rischiato di provocare rischiose disarmonie, i giudici di Palazzo della Consulta hanno ritenuto preferibile concedere al legislatore un anno di tempo per provvedere alla riscrittura della disciplina. Si prospettava infatti il rischio di reazioni a catena su un’architettura normativa già logicamente molto fragile.

Passato l’anno previsto, la Corte ha constatato che il legislatore ancora non aveva provveduto e così, con una decisione che è stata comprensibilmente molto criticata (poiché la Corte non dovrebbe auto-sospendersi dal suo fondamentale compito di controllare la costituzionalità delle leggi), ha concesso al Parlamento ulteriori 6  mesi che sarebbero scaduti l’8 novembre. Si tratta della data fissata per l’udienza di trattazione delle censure sollevate dalla Cassazione, che si dava pressoché per scontato sarebbero state accolte in assenza di novità normative.

Nel frattempo, il Governo precedente aveva elaborato un progetto di legge unificato, approvato solo dalla Camera alla fine di marzo. È un testo che aveva sollevato perplessità, che si sarebbero potute trasformare in emendamenti al Senato. L’iter legislativo si è invece congelato, sino all’emanazione d’urgenza, da parte del nuovo Governo appena insediato, del decreto-legge del 31 ottobre che ha riproposto con una sola modifica (su un profilo molto tecnico, il c.d. “scioglimento del cumulo”) il precedente testo approvato alla Camera.

Fine prima parte, continua 

* professore associato di Diritto processuale penale all’Università di Ferrara, co-fondatrice del Laboratorio interdisciplinare di studi sulla mafia e altre forme di criminalità organizzata (MaCrO) dell’Università di Ferrara, componente della Conferenza nazionale dei Delegati dei Rettori ai poli universitari penitenziari (CNUPP).

 

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