A fine ottobre a Palermo si è svolto l’annuale convegno nazionale dell’ Associazione Italiana dei Professori di Diritto Penale, organizzato presso l’Università di Palermo, con il patrocinio del Comune. E’ stata l’occasione per analizzare la situazione attuale relativamente ai problemi di violenza e ordine pubblico che vivono molte città italiane e valutare un cambio di paradigma rispetto alla risposta che si sta imponendo, senza riscuotere risultati significativi, basata principalmente sull’utilizzo del diritto penale, ossia aumento dei reati e inasprimento delle pene.
Da nord a sud del paese, da Milano a Palermo, episodi di violenza urbana riempiono sempre più spesso le pagine della cronaca, locale e/o nazionale. E dalla cronaca alla politica il passo è breve: la violenza genera allarme sociale, che a sua volta alimenta il senso di insicurezza, che da par suo è correlato a problemi di degrado e marginalità, che a loro volta, in una catena della paura o, quantomeno, del disagio, chiamano in causa le istituzioni pubbliche, a partire dai sindaci, che sono i più vicini al territorio e alla cittadinanza.
Superare la legge del taglione
La risposta più semplice che gli amministratori pubblici possono dare al bisogno di sicurezza dei cittadini, in un sistema pubblico gravato da forti condizionamenti nelle disponibilità di fondi a bilancio, è quella che non ha costi, almeno immediati. Per rassicurare la cittadinanza impaurita dalle più diverse forme di violenza, un farmaco pronto all’uso, passato dal ‘servizio’ pubblico e a somministrazione gratuita, è aumentare le pene o introdurre nuovi reati.
Rispondere al male col male è nelle corde del diritto penale, almeno dal codice di Hammurabi e dalla celeberrima legge del taglione (‘occhio per occhio, dente per dente’). Il messaggio veicolato invocando il diritto penale è semplice da comprendere, immediato, istintivo: rispondiamo duramente, col male del carcere, a chi ci fa del male. È un’idea – fondata sul concetto di azione-reazione – che ha una sua lineare razionalità: il carcere isola, esclude dalla società, neutralizza la pericolosità finché ‘il delinquente pericoloso’ vi è rinchiuso.
Questa idea è così semplice e intuitiva, così ancorata ai nostri istinti di reazione al male, di punizione e di castigo, da riscuotere un diffuso consenso. Le politiche ispirate alla logica del ‘law and order’ e del ‘thought on crime’ pagano elettoralmente. Il diritto penale diventa così uno strumento elettorale di acquisizione del consenso. Chi mette al centro della propria agenda elettorale politiche di tal genere, di impronta securitaria e populistica, molto spesso vince le elezioni, ad ogni latitudine.
La storia e l’attualità di più di una democrazia occidentale, compresa la nostra, stanno lì a dimostrarlo. Si promettono più reati e più pene per chi genera insicurezza, da un lato, e, dall’altro lato, più ‘scudi’ per escludere conseguenze penali per i tutori dell’ordine pubblico o per il privato cittadino che si difende da solo, usando armi (‘la difesa è sempre legittima’, recita lo slogan).
Un’overdose di reati e pene
Ma è un film già visto, che si ripete. Pensiamo ai primi decreti-sicurezza del Ministro Maroni, quasi vent’anni fa, che introdussero, tra l’altro, il reato di immigrazione clandestina (a proposito: ha funzionato come un muro penale contro i flussi migratori? No di certo). Oppure pensiamo alla legge che, nel 2006, prima, e nel 2019, ha esteso i margini della legittima difesa armata nel domicilio o negli esercizi commerciali. E pensiamo all’ultimo decreto-sicurezza, che quest’anno ha introdotto 14 nuovi reati, una gragnuola, e almeno 9 circostanze aggravanti di ulteriori reati. Il furore punitivo-penalistico ha portato, addirittura, a introdurre reati anche là dove reati già c’erano: sono, ad esempio, i casi dell’occupazione abusiva di immobili o del femminicidio.
Questa overdose di reati e di pene, nell’ultimo ventennio almeno, ha migliorato le nostre condizioni di sicurezza? Il farmaco a costo zero che la politica ci propina risolve i mali di cui soffriamo? O è solo un placebo, che ci rassicura momentaneamente, specie a ridosso delle elezioni? Da penalisti siamo propensi a ritenere che, per lo più, la risposta è quest’ultima.
Il diritto penale, da solo, non risolve
Sullo sfondo del diritto penale c’è la realtà, ci sono le più disparate cause economico-sociali della criminalità, c’è, come scienza, la criminologia – quella seria, non da salotto televisivo – che è scienza deputata a studiare le cause del crimine. Ebbene, come penalisti diffidiamo dalle virtù terapeutiche del diritto penale perché lo conosciamo bene. Il diritto penale arriva quando il danno ormai è fatto; difficilmente riesce a prevenire, con la sola minaccia di pena, forme di criminalità che sono insensibili alla minaccia di una pena perché trovano la loro causa in fattori radicati nel tessuto sociale, culturale, economico di un territorio.
La cultura della violenza e della sopraffazione non si ferma minacciando una pena. Così come le aggressioni al patrimonio – furti e rapine – non si fermano minacciando pene più severe. Non che il diritto penale non serva a nulla – se non altro, perché le misure cautelari applicabili nell’immediato assicurano di neutralizzare chi è pericoloso, come dimostra il recente arresto, a Milano, dell’uomo con disturbi mentali che ha accoltellato una passante a caso; e perché esistono storie di uomini e donne cambiati dopo l’esperienza del processo e della pena. Ma, questo è il punto, il diritto penale non risolve di per sé i problemi che stanno dietro alla violenza e all’insicurezza delle nostre città e del nostro Paese.
Intervenire sulle cause e investire sulla sicurezza
Cesare Beccaria, padre dell’illuminismo italiano ed europeo, ce lo ha già detto più di 270 anni fa, ma sembra che, come società, non lo vogliamo capire e accettare. Il marchese lombardo sosteneva, a ragione, che più che introdurre nuovi reati o innalzare le pene, bisogna intervenire sul piano politico-sociale sulle cause del crimine e investire sulla sicurezza. In un capitolo di “Delitti e delle pene”, intitolato “Come si prevengano i delitti”(cap. XLI), così scrive Beccaria: “è meglio prevenire i delitti che punirli”.
E ancora, con parole tanto dure quanto chiare: la “chimera degli uomini limitati, quando abbiano il comando in mano” è “il proibire una moltitudine di azioni”. Ciò “non è prevenire i delitti che ne possono nascere, ma…è un crearne di nuovi”. Per Beccaria “il più sicuro ma il più difficil mezzo di prevenire i delitti [è il] perfezionare l’educazione” e, in un capitolo della sua opera dedicato alla “tranquillità pubblica” (cap. XXXIII), elencava tra i “mezzi efficaci” per prevenire i delitti “la notte illuminata a pubbliche spese [e] le guardie distribuite ne’ differenti quartieri della città”.
Cambiare il paradigma
Che fare, allora? Noi professori di diritto penale ce lo siamo chiesti da ultimo a fine ottobre, in occasione del nostro annuale convegno nazionale organizzato presso l’Università di Palermo, con il patrocinio del Comune. Siamo convinti che sia necessario un cambio di paradigma, di lenti attraverso le quali guardare al problema della violenza e della sicurezza. Occorre relegare il diritto penale al suo ruolo di extrema ratio e puntare su politiche pubbliche sostenute da adeguati finanziamenti, locali e statali, con il supporto vitale del terzo settore e della società civile.
Ed è per questa ragione che assieme al Comune di Palermo è l’Opera Don Calabria (organizzazione no profit impegnata da sempre in tutto il mondo a sostegno dei servizi sociali) ad aver condiviso la scelta della nostra associazione di affrontare a più livelli il tema della violenza nella società e dei limiti dell’intervento penale.
Abbiamo appreso durante il convegno che dopo quarant’anni di stallo l’amministrazione comunale di Palermo ha assunto circa 60 assistenti sociali: ebbene, non sembri eccentrico, ma riteniamo che proprio sul fronte della prevenzione della violenza urbana probabilmente questa è la strada maestra piuttosto che semplicistiche e contingenti misure di ordine pubblico, ivi comprese quelle di fonte penalistica.
