Da schiavo a uomo libero contro l’arroganza dei padroni. Su #Contagiamocidicultura “Il mio nome è Balbir” di Marco Omizzolo e Balbir Singh

“Il mio nome è Balbir” (People, 2025) non è solo un libro, è una voce che rompe il silenzio sulle condizioni dei braccianti della provincia di Latina, resi schiavi da un sistema – e da persone – assetato di profitto e di dominio assoluto su altre persone «in violazione quotidiana e sistematica dei diritti umani», spiega Marco Omizzolo, sociologo, scrittore, ricercatore Eurispes e docente all’Università La Sapienza di Roma.

La voce che ci accompagna in questa nuova puntata di #Contagiamocidicultura è quella di Balbir Singh, bracciante indiano, che ha vissuto per sette anni in condizioni disumane a una manciata di chilometri dal Parlamento italiano: picchiato, affamato, costretto a lavorare fino a dodici ore al giorno per pochi euro, rovistando negli avanzi destinati agli animali per sfamarsi. Attorno a lui il silenzio di cittadini e istituzioni: nessun controllo, nessuna attività investigativa.

“Il mio nome è Balbir” è la storia scritta da chi l’ha vissuta. «È il libro di uno schiavo che combatte per la sua libertà contro l’arroganza dei padroni, che sono anche padrini, cioè sono legati a un mondo criminale che è anche mafioso e che gestisce le persone pensando che queste possano diventare i loro oggetti personali», dice Marco Omizzolo, autore insieme a Balbir Singh del volume.

Balbir Singh non si è limitato a sopravvivere. Ha denunciato il suo aguzzino, è riuscito a farlo arrestare e si è costituito, insieme a Omizzolo, parte civile nel processo che ha portato alla condanna del “padrone” e al sequestro dei suoi beni. La sua vicenda ha segnato una svolta storica: «è il primo bracciante indiano gravemente sfruttato a ottenere un permesso di soggiorno per motivi di giustizia, rinnovabile e convertibile», sottolinea il sociologo. La lotta di Balbir si inserisce in una dimensione collettiva: «la storia di questo Paese può essere anche raccontata come un prima Balbir e un dopo Balbir».

“Il mio nome è Balbir” è un libro che parla della nostra Italia e alla nostra Italia: quella che sfrutta, che chiude gli occhi di fronte allo schiavismo contemporaeo. Ma anche quella che si batte per la dignità umana, grazie soprattutto alla resistenza di chi proviene da altri luoghi e ci mette di fronte ad uno specchio, smascherando la nostra ipocrisia. Un racconto di riscatto collettivo, che ci ricorda come la giustizia non sia solo un diritto, ma una conquista.

«Balbir ha fatto, attraverso la propria storia, una rivoluzione per sé e per tutti noi. Non voleva solo liberarsi dallo sfruttamento, ma voleva giustizia. Diceva: “io voglio che il padrone finisca in galera e che i suoi beni vengano confiscati, perché nessun altro viva ciò che ho vissuto io”. E così è stato. Il suo padrone è stato condannato, e Balbir oggi è un simbolo di libertà e coraggio civile», conclude Marco Omizzolo.

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