Criminalità minorile a Napoli. Giancarlo Siani, il primo a capire e approfondire il fenomeno. Un contributo di Isaia Sales

Il 23 settembre del 1985 Giancarlo Siani, cronista de Il Mattino di Napoli venne ucciso dalla camorra. Nelle sue inchieste analizzava la realtà di Napoli, ferita dalle disuguaglianze, dalla povertà, dalla risposta criminale alle esigenze sociali. A 40 anni dal suo omicidio, tanti ne hanno ricordato il coraggio e l’acume, tra questi Isaia Sales che, nell’articolo pubblicato su Il Fatto quotidiano il 24 settembre 2025, ha riportato l’importanza della lettura dell’infanzia a rischio nei quartieri napoletani, a cui Siani si dedicava con parole e spunti ancora attuali.

Quando decisi di scrivere un libro sulla criminalità minorile a Napoli, mi ricordai di un articolo di Giancarlo Siani sui cosiddetti “muschilli”, i ragazzini usati per consegnare dosi di droga o trasportare armi senza correre il rischio di essere imputabili.

Il pezzo di Giancarlo mi aveva molto colpito: non era un saggio, non era un articolo lungo ma vi avevo trovato il tono che ritenevo necessario per affrontare un tema così delicato: l’empatia verso questi bambini a cui si facevano compiere azioni che i criminali adulti ritenevano pericolose per sé stessi, un atto vigliacco prima che immorale e illegale. Nell’articolo si raccontava di una nonna capace di utilizzare il nipote di undici anni come postino di droga per i propri clienti, anello terminale di una catena criminale che strumentalizzava anche l’affetto parentale e lo trasformava in affare o in mezzo di sussistenza.

L’ultimo articolo

Vedendo poi la data in cui l’articolo era comparso su Il Mattino, mi accorsi che si trattava del 22 settembre 1985, il giorno prima della sua uccisione per mano di camorristi, su indicazione del clan dei Nuvoletta, affiliato alla mafia siciliana, e di Totò Riina. Giancarlo aveva fatto intendere in un pezzo precedente di cronaca che l’arresto del latitante Valentino Gionta, il capoclan di Torre Annunziata, era avvenuto nelle zone controllate dai Nuvoletta e, quindi, era possibile che i boss di Marano lo avessero segnalato alle forze dell’ordine. Da qui, su suggerimento di Riina, la decisione di ammazzarlo per smentire che i Nuvoletta fossero degli spioni.

Quello sui muschilli era stato il suo ultimo articolo ed era dedicato ad una particolare condizione dei minori in Campania. Giancarlo era intransigente verso i politici che alimentavano la camorra e godevano elettoralmente del suo sostegno (Marco Risi nel film Fortapasc ne ha colto tutta l’ipocrisia nella scena del comizio dell’allora sindaco di Torre), ma voleva indagare sulle ragioni profonde che ne determinavano il successo. Nel suo articolo c’era rabbia per la nonna e attenzione partecipata per il ragazzino.

Insomma, come aveva già ampiamente sostenuto nei suoi articoli sulla devastante crisi industriale che aveva colpito l’area tra Torre Annunziata e Castellammare di Stabia all’inizio degli anni Ottanta del Novecento, per il giovane cronista il crimine speculava sulla fragilità economica delle famiglie in difficoltà e rappresentava la spia violenta di una grave malessere di contesto, prima che individuale.

Le parole per dirlo 

A Giancarlo facevano tenerezza quei minorenni che si muovono nell’incerto confine tra innocenza e violenza, tra ansia di crescere e aggressiva strafottenza, tra arte di arrangiarsi e quella di sopraffare. La lingua napoletana ha prodotto alcuni dei termini più efficaci per raffigurare questi ragazzini abbandonati e intraprendenti già pronti a percorrere le strade della violenza, da guaglione a picciotto, da sciuscià a scugnizzo, da muschillo a muccuso (ragazzini così piccoli che non sanno pulirsi dal muco che gli scende dal naso).

Non monello, bullo, discolo, ragazzaccio, appellativi usati in altre parti d’Italia. Come se nella realtà di Napoli e del suo esteso hinterland un minore non potesse permettersi una semplice crisi di crescita, un disagio della pubertà, una devianza provvisoria prima della maggiore età senza necessariamente finire– con elevate probabilità – nelle braccia degli adulti camorristi.

Anche in altre parti d’Italia la delinquenza dei minori si presenta come un serio problema, ma nell’area napoletana assume le caratteristiche di emergenza sociale e culturale, densa, difficile e drammatica. Essa non riguarda solo la città di Napoli ma tutto il suo estesissimo hinterland, dove si sono ripresentate le stesse condizioni predisponenti della capitale. Torre Annunziata, la cittadina dove Giancarlo ha svolto quasi tutta la sua attività di giornalista precario, è stata ed è una “riuscita” fotocopia dell’esplosività sociale di Napoli.

La lettura ancora attuale del fenomeno

Qual è la particolarità della criminalità minorile napoletana che colpiva Siani? Sicuramente il rapido passaggio dai delitti di strada a membri dei clan di camorra. Non è una regola, ma della camorra è più probabile che diventi membro un figlio di un sottoproletario che il figlio di un borghese. Non è un teorema, ma nella camorra è più probabile che entri a far parte un ragazzo che ha abbandonato la scuola piuttosto che uno che la frequenta regolarmente.

Non si entra nella camorra per parentela, ma è più probabile che vi trovi posto un familiare di chi è stato già in carcere. Non si entra nella camorra solo perché da minorenni si è commesso qualche reato, certo, ma è più probabile che un minore che è passato per le carceri minorili vi venga reclutato.

La differenza che segnalava Siani era data, poi, dal fatto che la droga consentiva dei profitti così alti da non potersi paragonare a nessun’altra attività illegale del passato. Il contrabbando, il lotto clandestino, il calcio scommesse, la ricettazione di merce rubata, permettevano, certo, a una piccolissima élite di arricchirsi ma soprattutto a tanti altri che vi ruotavano attorno di sopravvivere e di “portare il pane a casa”. Con la droga di massa, invece, il circuito dell’arricchimento si era enormemente allargato, mentre lo scugnizzo di un tempo si arrangiava tra elemosina, furto, scippo, lavoro precario, e la violenza non era così abituale.

Questa tendenza si è consolidata nel tempo. Oggi dentro l’economia della droga operano dei narco-giovani che non hanno più niente a che fare con gli scugnizzi di un tempo. Mai nel passato si poteva fare un salto così veloce dalla povertà e dalla precarietà verso la ricchezza. È questo dato che ha cambiato nel profondo il rapporto tra disagio minorile e criminalità. E Giancarlo lo aveva intuito. Senza saper fare niente di complicato, si può avere accesso a quei consumi che per anni i minori hanno sognato e a una vita da “invidiati”.

Il reclutamento non avviene attraverso una carriera criminale ben distanziata nel tempo: si passa dallo scippo e dal furto all’omicidio e allo spaccio di droga in pochissimo tempo, si transita dalla minigang alla partecipazione al clan camorristico nel giro di una stagione. Il passaggio dal crimine di strada al clan di camorra è più rapido che in qualsiasi altra mafia. Nessuno di questi giovanissimi vuole restare “nessuno”, ognuno di loro vuole diventare “qualcuno” a tutti i costi. E la via criminale è la più aperta e “democratica” rispetto a quelle che (non) aprono la scuola e il lavoro.

Ho avuto modo di leggere in questi anni gli articoli di Giancarlo a più riprese, e non solo quelli usciti su il Mattino. Mi sono convinto che se non fosse stato così violentemente strappato alla vita in quella calda sera del 23 settembre 1985, Giancarlo avrebbe fatto della condizione dell’infanzia e dei minori nella grande area metropolitana di Napoli una delle questioni centrali della sua idea di giornalismo e di impegno civile.

 

*storico, scrittore, membro del comitato scientifico di Avviso Pubblico
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