Attraverso una puntuale ricostruzione storica del percorso di sentenze e norme che hanno portato alla formulazione attuale dell’articolo 416 bis del codice penale, il professor Turone, tra i massimi esperti come magistrato, studioso e professore sulla criminalità mafiosa, economica ed eversiva, illustra le motivazioni che rendono rischiosa e dannosa qualsiasi ipotesi di modifica.
di Giuliano Turone*
Modificare l’articolo 416 bis del codice penale sull’associazione di tipo mafioso? Considerare “desueta” la definizione giuridica di quell’associazione criminosa, faticosamente costruita dal legislatore del 1982? Per favore, no! Anche perché quel legislatore ha avuto l’accortezza di non coniare una definizione giuridica “improvvisata” in quattro e quattr’otto, ma ha fatto tesoro di un lungo lavoro certosino, durato circa un decennio (precisamente dal 1965 al 1974) e portato avanti con grande pazienza e dedizione, in quell’arco temporale, dalla magistratura incaricata di applicare non soltanto le norme del diritto penale sostanziale, ma anche le norme sulle misure di prevenzione contenute nella legge 31 maggio 1965 n. 575.
Andiamo con ordine
Il 7 agosto 1963 la primissima Commissione parlamentare antimafia aveva presentato al Parlamento una Relazione che prospettava l’opportunità di modificare la normativa del 1956 sulle misure di prevenzione (sorveglianza speciale e divieto o obbligo di soggiorno), in modo tale da rendere più efficace la lotta contro la mafia. Il Parlamento approvò la riforma appunto con la legge del 1965, la quale contemplava per la prima volta la categoria criminologica della associazione mafiosa (art. 1: “La presente legge si applica agli indiziati di appartenere ad associazioni mafiose”), sia pure senza darne alcuna definizione.
La legge n. 575 del 1965 nasceva però come un testo normativo destinato ad essere interpretato ed applicato dal magistrato penale, il quale si trovava improvvisamente a dover dare risposta a un interrogativo non da poco: su che base si può stabilire che un soggetto è indiziato di appartenere a un’associazione mafiosa e può essere quindi sottoposto a una misura di prevenzione?
Ed ecco allora che proprio questa legge, nonostante la sua modesta portata, ha costituito a poco a poco la spinta principale a quella lunga e faticosa elaborazione giurisprudenziale, alla quale avrebbe poi attinto il legislatore del 1982 per formulare, finalmente, la definizione normativa dell’associazione di tipo mafioso: “”L’associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri”” (art. 416 bis, terzo comma, nella sua versione originaria).1
Va detto che l’elaborazione giurisprudenziale della categoria giuridica dell’associazione mafiosa si è mossa in parallelo sia sul versante delle misure di prevenzione, sia sul versante di certe condotte di reato specifiche, che sono state colte dal giudice penale come particolarmente congeniali al modus operandi mafioso. In verità la prima giurisprudenza sulla legge n. 575 del 1965 si muove con difficoltà, ma pone comunque un primo punto fermo sulla sufficiente univocità di significato dell’espressione “associazione mafiosa”: una sentenza del 1969 stabilisce infatti che “il termine di associazione mafiosa cui fa riferimento la disposizione, pur non essendo definito dalla legge stessa, ha nel linguaggio comune un significato univoco e limiti ben definiti” 2.
La forza di intimidazione
Il primo tra i parametri caratterizzanti dell’associazione mafiosa ad essere individuato dalla giurisprudenza (ma in sentenze che non riguardano ancora l’applicazione della legge 575) è quello dell’intimidazione sistematica. Di notevole importanza è una sentenza della Corte Suprema della metà degli anni Sessanta nella quale si sostiene, a proposito del reato di violenza privata, che in un ambiente dominato dalla mafia, “ove le prepotenze e le vessazioni sono elevate a regola di vita”, ben può l’intimidazione manifestarsi anche in semplici atteggiamenti, “pur in mancanza di parole o di gesti espliciti di intimidazione” 3.
La giurisprudenza evidenzia così per la prima volta una delle caratteristiche essenziali e più peculiari dei comportamenti mafiosi tipici: la minaccia implicita, allusiva, immanente. La percezione della potenzialità intimidatrice propria dell’ambiente mafioso è evidente anche in una sentenza del 1967, la quale riconosce la discriminante dello stato di necessità ad un imputato di favoreggiamento personale che, non sentendosi abbastanza protetto dagli organi dello Stato in relazione a possibili rappresaglie, aveva rifiutato di fare i nomi di appartenenti alla mafia che gli avevano amputato una mano: è chiaro che una siffatta decisione, che la stessa Corte si sente in dovere di giustificare, osservando che all’epoca dei fatti “l’azione dello Stato per il debellamento della mafia era appena agli inizi”, è il riflesso di un implicito riconoscimento della forza intimidatrice del vincolo associativo e della conseguente condizione di omertà quali caratteristiche essenziali delle organizzazioni mafiose 4.
Particolarmente significativa è poi una sentenza di legittimità del 1970, relativa al reato di estorsione, la quale eleva l’intimidazione sistematica a connotazione essenziale di “certe manifestazioni ambientali caratteristiche di criminalità quali la mafia e la camorra”, così proponendo per la prima volta, tra l’altro, un’interessante assimilazione tra fenomeno mafioso e fenomeno camorristico. La sentenza fa riferimento ad “un piccolo paese dominato da capi camorra noti e temuti, il cui solo nome incute timore reverenziale”, e stabilisce che l’intimidazione, e quindi la minaccia estorsiva, può estrinsecarsi anche in maniera larvata, attraverso “i consigli d’amico, la presenza silenziosa, le semplici avvertenze”, o anche attraverso “un’apparente richiesta di mutuo non avente in concreto alcuna giustificazione” 5.
All’inizio degli anni Settanta, dunque, la giurisprudenza ha già individuato il primo tra i parametri caratterizzanti della associazione mafiosa (la forza intimidatrice del vincolo associativo), ed ha già posto le basi per una equiparazione fra mafia e camorra. Un ulteriore passo avanti sulla strada verso una definizione giurisprudenziale del comportamento mafioso è costituito da una sentenza del 1973 — relativa, questa, all’applicazione della legge n. 575 del 1965 — nella quale viene menzionato come sintomo di mafiosità “l’uso di mezzi intimidatori per assicurarsi il monopolio dei trasporti in una determinata zona”. In questa sentenza emerge chiaramente la consapevolezza degli aspetti economici del fenomeno mafioso, che comincia così ad essere percepito come fenomeno di conquista illegale di spazi di potere, e in particolare di potere economico 6.
Il passo successivo è costituito da un’ordinanza della Corte suprema del 12 novembre 1974 (l’ordinanza Serra), di estremo interesse, in quanto contiene una definizione complessiva dell’associazione mafiosa, nei termini che saranno poi fatti propri dal legislatore del 1982. Secondo la motivazione di questa pronunzia è associazione mafiosa:
“ogni raggruppamento di persone che, con mezzi criminosi, si proponga di assumere o mantenere il controllo di zone, gruppi o attività produttive attraverso l’intimidazione sistematica e l’infiltrazione di propri membri in modo da creare una situazione di assoggettamento e di omertà che renda impossibili o altamente difficili le normali forme di intervento punitivo dello Stato”.
Il riconoscimento della non regionalità delle mafie
È facile osservare come le espressioni impiegate siano sostanzialmente le stesse che compariranno otto anni dopo nella legge n. 646 del 1982, che introdurrà nel nostro codice penale l’art. 416 bis: tra l’altro, nell’ordinanza Serra, viene indicato come sintomo di mafiosità anche “il fatto di trarre vantaggi personali giovandosi anche indirettamente della forza di intimidazione che il gruppo esprime” 7.
L’affermazione di questo principio della non regionalità del fenomeno mafioso (unitamente alla fissazione dei parametri dell’intimidazione, dell’assoggettamento e dell’omertà, ed all’individuazione degli scopi anche economici dell’associazione) fa sì che si possa riconoscere nell’ordinanza 12 novembre 1974 della Corte di cassazione la presenza in nuce di tutti gli elementi essenziali del futuro art. 416-bis c.p.; il cui ultimo comma, del resto, lo si rammenta, estende le disposizioni dell’associazione mafiosa « anche alla camorra, alla ‘ndrangheta e alle altre associazioni, comunque localmente denominate, anche straniere », aventi caratteristiche assimilabili.
In conclusione, è lo stesso complesso iter storico che ha portato faticosamente a una formulazione della definizione giuridica di associazione mafiosa (definizione che ha funzionato egregiamente per quarant’anni) a sconsigliare vivamente il legislatore dal toccarne il delicato equilibrio.
*Ex magistrato, scrittore, professore universitario. Ha svolto per molti anni l’attività di giudice istruttore, impegnandosi in inchieste di criminalità mafiosa, economica ed eversiva. Negli anni Settanta, ha istruito il primo processo sulle attività criminali di Cosa Nostra in Lombardia, che ha portato all’arresto del capomafia Luciano Liggio. Successivamente ha condotto insieme con Gherardo Colombo l’inchiesta giudiziaria milanese sulle vicende di Michele Sindona e sull’omicidio Ambrosoli, nel corso della quale vennero scoperti gli elenchi della Loggia massonica P2. È stato pubblico ministero al Tribunale internazionale dell’Aja per l’ex Iugoslavia e giudice della Corte suprema di cassazione. Insegna tecniche dell’investigazione all’Università Cattolica di Milano. Ha pubblicato alcuni manuali giuridici, tra cui Il delitto di associazione mafiosa (Giuffrè 2008). Con Gianni Simoni ha pubblicato anche Il caffè di Sindona. Un finanziere d’avventura tra politica, Vaticano e mafia (Garzanti 2009), Cesare Battisti, Storia di un’inchiesta (Garzanti 2019).
NOTE
1 Nella norma attualmente in vigore, il terzo comma è stato integrato – dal decreto legge 8 giugno 1992 n. 306 – con la frase seguente: “”ovvero al fine di impedire od ostacolare il libero esercizio del voto o di procurare voti a sé o ad altri in occasione di consultazioni elettorali””.
2 Cass., 29 ottobre 1969, Tempra, in Giust. pen., 1970, II, c. 879.
3 Cass., 6 ottobre 1965 (ud. 22 giugno 1965), Albovino, CED-099917.
4 Cass., Sez. III, 12 maggio 1967, Cravotta, in Cass. pen. Mass. ann., 1968, p. 927, m. 1395.
5 Cass., Sez. II, 23 marzo 1970, Ambrogio, in Cass. pen. Mass. ann., 1972, p. 131, m. 157.
6 Cass., 25 giugno 1973, Mazzaferro, in Cass. pen. Mass. ann., 1974, p. 1373, m. 2197.
7 Cass., Sez. I, ordinanza n. 1709, 12 novembre 1974 (dep. 13 giugno 1975), Serra, CED-130222-23, in Giust. pen., 1976, III, cc. 151 ss. Poiché questo provvedimento della Corte suprema ha un notevole valore storico, se ne riporta anche il nome del magistrato estensore: Rainero de Castello, nato a Belluno nel 1923 e deceduto nel 1994 a Firenze mentre prestava servizio come Presidente della Corte d’appello del capoluogo toscano. Nello stesso senso Cass., 8 giugno 1976, Nocera, in Giust. pen., 1977, II, c. 268; Cass., 7 marzo 1977, Ortoleva, ivi, 1977, III, c. 678; Cass., 14 marzo 1980, Salatiello, cit.; Cass., 14 gennaio 1980, Garonfolo, in Cass. pen. Mass. ann., 1981, p. 647, m. 670.