Articolo pubblicato sul Corriere del Veneto e di Verona il 3 marzo 2023
MERCOLEDÌ 1° MARZO IL TRIBUNALE DI VERONA HA EMESSO LA SENTENZA DEL PROCESSO ISOLA SCALIGERA. ACCOLTE LA TESI DELLA PROCURA ANTIMAFIA DI VENEZIA: NEL TERRITORIO VERONESE ESISTEVA UNA LOCALE DI ‘NDRANGHETA, IN COLLEGAMENTO CON LA COSCA ARENA DI ISOLA CAPO RIZZUTO. TRA LE PENE PIÙ ELEVATE, 30 ANNI A TESTA AI FRATELLI GIARDINO: ALFREDO E ANTONIO, DETTO TOTAREDDU, CONSIDERATO IL CAPO INDISCUSSO DELL’ORGANIZZAZIONE.
23 IN TUTTO GLI IMPUTATI PER REATI CHE VANNO DELL’ESTORSIONE ALLA TRUFFA, DAL RICICLAGGIO, ALLA CORRUZIONE AL TRAFFICO DI DROGA. E, IL PIÙ GRAVE, ASSOCIAZIONE DI STAMPO MAFIOSO. LA SENTENZA ARRIVA GRAZIE AD UN’IMPORTANTE INCHIESTA DELLA DIREZIONE DISTRETTUALE ANTIMAFIA DI VENEZIA IN COLLABORAZIONE CON IL SERVIZIO CENTRALE OPERATIVO DELLA POLIZIA DI STATO. ORA SERVE ANCHE L’IMPEGNO DEL TERRITORIO: AMMINISTRAZIONI, IMPRESE, SOCIETÀ CIVILE, INSIEME PER PREVENIRE E CONTRASTARE INFILTRAZIONI E PRESENZE CRIMINALI.
Contributo di Pierpaolo Romani*
La ‘ndrangheta a Verona esiste ed è radicata. Ha una sua struttura di comando, una Locale. Ricicla denaro di provenienza illecita praticando frodi e truffe, utilizzando prestanome e società cartiere che emettono fatture false. Traffica e spaccia droga. Dispone di uomini e di armi. Non esercita una violenza eclatante, ma quando serve minaccia e intimidisce. I mafiosi in terra scaligera, come anche in altre province del Nord Italia, preferiscono agire come imprenditori, corrompere anziché sparare.
La corruzione non spaventa come un omicidio, non attira l’attenzione immediata degli apparati investigativi e dei mass media, anche se intacca pesantemente le fondamenta della democrazia e genera danni enormi ai cittadini. Il target dei mafiosi “imprenditori-corruttori” sono preferibilmente persone che operano nella pubblica amministrazione o che rivestono ruoli pubblici. Qui scatta anche la connivenza e la complicità.
Questo è lo scenario che emerge dal processo “Isola scaligera”, avviato dopo un’inchiesta della Direzione distrettuale antimafia di Venezia in collaborazione con il Servizio Centrale Operativo della Polizia di Stato, di cui l’altro ieri è stata emessa la sentenza. Le condanne inflitte ai vertici del sodalizio mafioso presente in terra scaligera, considerato “pericoloso e silente”, sono pesanti: trent’anni di reclusione. Un gradino prima dell’ergastolo.
Il reato di associazione a delinquere di tipo mafioso, inserito quarant’anni fa nel nostro codice penale, è stato riconosciuto dai giudici della Corte. E questo è un dato di fatto di cui chi governa, lavora e vive sul territorio veronese deve tenere conto.
Questo scenario sinteticamente descritto è stato scoperto non a seguito di una denuncia fatta alle autorità competenti da qualche amministratore o dirigente pubblico, da qualche imprenditore, da qualche libero professionista, da qualche cittadino/a. Tutto questo è stato scoperto grazie all’attività investigativa, alle intercettazioni ambientali e telefoniche, dal contributo di collaboratori di giustizia.
Durante alcune sedute del dibattimento si è assistito a silenzi, a testimonianze discutibili e parziali da parte di persone che, per paura, per mancanza di fiducia o per supposta connivenza e complicità, hanno preferito essere denunciate per falsa testimonianza o reticenza piuttosto che raccontare ai magistrati quanto effettivamente sapevano. Questo è un altro dato di fatto sul quale si deve riflettere, al di là delle condanne e delle assoluzioni.
L’apparato investigativo-giudiziario ha svolto egregiamente la sua parte ed è giusto riconoscerglielo pubblicamente. Tuttavia, la questione mafie e corruzione, in Veneto e a Verona, non può essere delegata esclusivamente a chi indossa una toga o una divisa. Contemporaneamente all’azione di repressione, serve una più robusta e continuativa azione di prevenzione. La politica deve fare la sua parte. I Comuni, ad esempio, devono costituirsi parte civile nei processi contro le cosche mafiose come hanno fatto la Regione del Veneto e la Cgil, curare la formazione del loro personale, operare con la massima trasparenza.
Gli imprenditori non devono mettersi in affari con persone sospette e discutibili e cercare capitali al di fuori dei circuiti legali. Chi dirige un’azienda, al pari di chi dirige una banca, deve controllare l’origine dei capitali che circolano nel mercato e sul territorio. L’antico principio del pecunia non olet insieme a quello più moderno del business is business minano le basi della libera concorrenza, aprono strade agli imprenditori disonesti e complicano la vita e la sicurezza di quelli onesti. Chi sa deve denunciare, avendo fiducia negli apparati dello Stato.
A Verona, da più di due anni, si sta gradualmente costruendo una “rete di legalità organizzata” che organizza progetti formativi e iniziative pubbliche e che vede come protagonisti gli enti locali aderenti all’Associazione “Avviso Pubblico”, la “Consulta della legalità” della Camera di commercio, la magistratura, le forze di polizia, la prefettura, Libera e altre associazioni, il mondo delle scuole. Iniziative sono state fatte recentemente anche all’università. Su questa strada si deve proseguire. È la cultura, che produce consapevolezza, il principale antidoto alle mafie.
*coordinatore nazionale di Avviso Pubblico