PREMESSA. Il 19 gennaio 2022 la Commissione parlamentare di inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti e su illeciti ambientali ad esse correlati ha approvato la Relazione sulla diffusione delle sostanze perfluoroalchiliche, con l’auspicio di inquadrare la problematica relativa all’inquinamento da PFAS, già oggetto di studio nelle precedenti sue due relazioni datate 8 febbraio 2017 e 14 febbraio 2018.

La relazione viene aperta fornendo la definizione delle sostanze perfluoroalchiliche (PFAS): esse sono dei composti organici formati da una catena alchilica di lunghezza variabile (in genere da 4 a 14 atomi di carbonio), totalmente fluorurata, e da un gruppo funzionale idrofilico (generalmente, un acido carbossilico o solfonico). Il legame tra carbonio e fluoro è molto forte e rende tali sostanze estremamente stabili, con caratteristiche non solo idrofobiche, ma anche idrosolubili e oleo repellenti e ciò spiega la grande diffusione nell’ambiente. L’unica azione per rompere la molecola e il legame carbonio – fluoro è quello dell’incenerimento a una temperatura superiore a 800 gradi.

I composti perfluoroalchilici vengono usati nei rivestimenti dei contenitori per il cibo, nella produzione del Teflon e del Gore-Tex, nella produzione di capi d’abbigliamento impermeabili, in prodotti per stampanti, pellicole fotografiche e superfici murarie, in materiali per la microelettronica e nelle meccaniche di precisione; sono stati utilizzati, a partire dagli anni Cinquanta, come emulsionanti e tensioattivi in prodotti per la pulizia, nella formulazione di insetticidi, rivestimenti protettivi, schiume antincendio e vernici. Infine, una determinata tipologia di PFAS, i fluoropolimeri trovano impiego in applicazioni ad alto contenuto tecnologico, come nei dispositivi medicali, nelle batterie agli ioni di litio, nell’isolamento di cavi per le nuove tecnologie, nella realizzazione di semiconduttori per l’elettronica e nelle installazioni per gli impianti di energia rinnovabile.

La caratteristica che li rende potenzialmente pericolosi per la salute umana è il fatto che si accumulano non nel grasso, ma nel sangue e nel fegato. Nell’uomo queste sostanze permangono per periodi estremamente lunghi, con un’emivita di quasi 5 anni per il PFOS e di quasi 4 anni per il PFOA. Per tutte le caratteristiche chimiche, sono molto persistenti nell’ambiente, contaminando il suolo, l’aria, l’acqua, sicché arrivano all’uomo attraverso la catena alimentare. Già a partire dagli anni 2000, la legislazione dei vari Stati e l’industria hanno intrapreso azioni per ridurre il rilascio di PFAS a lunga catena in ambiente, prendendo così avvio una transizione industriale volta a sostituire i PFAS a catena lunga (PFOS e PFOA) con sostanze alternative, fluorurate e non fluorurate.

In Italia i siti di produzione delle sostanze perfluorurate sono due: quello di Trissino in Veneto (dove fino al 2018 operava la società Miteni, successivamente fallita) e quello di Spinetta Marengo in Piemonte (tuttora gestito dalla Solvay). Entrambe le aziende saranno oggetto di interventi di bonifica a causa delle conseguenze ambientali molto pensati riportate nei due siti.

Facendo riferimento alla relazione dell’ARPA (doc. 732/2), possono essere stimate, in relazione alla lunghezza della catena carboniosa e dei gruppi funzionati, oltre 4.700 tipologie di sostanze perfluorurate, ma solo per qualche decina tutt’oggi esistono gli standard commerciali per poter eseguire le analisi di laboratorio.

Nel quarto capitolo della presente relazione viene individuata l’origine della contaminazione nella regione Veneto negli scarichi dell’azienda chimica Miteni Spa di Trissino, la quale, insediata in area di ricarica di falda, aveva determinato l’inquinamento delle acque sotterranee proprio a causa della produzione di composti PFAS e, in precedenza, di benzotrifluoruri (BTF) a partire dagli anni 1966-1967, anni in cui è partito l’inquinamento, per un’estensione di 180 chilometri, con relativo avvelenamento anche dei pozzi di alimentazione delle reti acquedottistiche comprese nelle province di Vicenza, Verona e Padova. La Miteni, dopo la pubblicazione dello studio IRSA-CNR che aveva rilevato la contaminazione, ha posto in essere tre distinte operazioni:

  1. ha inviato, in data 23 luglio 2013, agli enti competenti la notifica di superamento delle CSC;
  2. ha cessato la produzione dei PFAS a catena lunga, in particolare del PFOA (acido perfluoroottanico), rinvenuto nelle acque di falda;
  3. ha provveduto a implementare il numero dei pozzi di emungimento.

In relazione agli esiti delle campagne di monitoraggio delle acque sotterranee ai punti di conformità e nei pozzi interni della ditta Miteni, si è resa necessaria l’implementazione dei pozzi nel periodo 2013-2019: sono state realizzate più linee di barriera (una posizionata nel lato nord, una a sud e una nella parte centrale dello stabilimento ovvero nell’area a contaminazione maggiore) a cui è stata aggiunta, nel periodo maggio/luglio 2019, un’ulteriore barriera costituita da dieci pozzi nei pressi degli impianti, cosiddetta “barriera di alleggerimento”, destinata ad alleggerire il carico di sostanze disciolte nella storica produzione di perfluorurati e posta nel settore nord-est del sito.

La Commissione sottolinea poi nel sesto capitolo che si è dovuto attendere il 20 maggio 2021, nel corso di un’audizione Arpa Veneto, per far sì che emergesse per la prima volta la condizione di inquinamento dell’area ex RiMar (Ricerche industriali Marzotto), ovvero la prima sede in cui insisteva lo stabilimento Miteni.

L’attività svolta dalla Miteni ha provocato l’inquinamento dei terreni e della falda sottostante lo stabilimento e ha contaminato le falde acquifere utilizzate sia per la distribuzione delle acque potabili, sia per l’irrigazione delle colture agricole di una vastissima area territoriale compresa tra le province di Vicenza, di Verona e di Padova. Inoltre, ha avuto gravi conseguenze sulla salute degli stessi lavoratori della Miteni e della popolazione residente in 21 Comuni della provincia di Vicenza più esposti agli effetti delle sostanze perfluoroalchiliche riversatesi sul territorio e inseriti, con deliberazione della giunta regionale del Veneto nr. 2133 del 2016, in un’area del territorio cosiddetta zona rossa.

I fatti successivi sono costituiti:

  1. dalla dichiarazione di fallimento della società Miteni pronunziata dal tribunale di Vicenza in data 9 novembre 2018;
  2. dall’avviso di chiusura delle indagini, in data 14 gennaio 2019, da parte della procura della Repubblica presso il tribunale di Vicenza nei confronti di 13 indagati a vario titolo e dalla successiva richiesta di rinvio a giudizio del 5 luglio 2019, di cui 4 indagati giapponesi (ex manager di Mitsubishi Corporation, proprietaria di Miteni Spa fino al 5 febbraio 2009), 4 indagati sono manager di ICIG, International Chemical Investors Group (il gruppo tedesco-lussemburghese subentrato alla Mitsubishi Corporation Inc.), 5 sono manager e dipendenti Miteni con delega in materia di ambiente e sicurezza.
  3. dall’ammissione di 226 parti civili, a seguito della richiesta di rinvio a giudizio da parte della Procura, tra cui il Ministero della Salute, il Ministero dell’Ambiente (ora Ministero della Transizione ecologica), la Regione Veneto, la Provincia di Vicenza, i Comuni interessati dall’inquinamento delle province di Vicenza, Verona e Padova, i Consigli di Bacino delle società affidatarie della gestione del servizio idrico integrato, l’ARPAV, le Organizzazioni sindacali CGIL e CISL, Medicina Democratica, Italia Nostra Onlus, ISDE Medici per l’ambiente e numerose parti private.

Con il monitoraggio delle acque di falda sono stati identificati due nuovi composti perfluoroalchilici prodotti dall’azienda Miteni di Trissino, ovvero:

  1. HFPO-DA o acido 2,3,3,3 – Tetrafluoro- 2-eptafluoropropossipropanoico o GenX;
  2. cC6O4 o sale d’ammonio del perfluoro{acetic acid, 2-[(5- methoxy-1,3-dioxolan-4-yl)oxy]}.

ISPRA, su delega della Procura di Vicenza, è stata demandata di svolgere ulteriori indagini in merito alla loro:

  • distribuzione temporale -> calcolata tenendo conto dei punti in cui sono state ritrovate le due sostanze, e quindi, tenendo conto della lontananza del ritrovamento di queste sostanze rispetto al sito Miteni: per quanto riguarda il GenX, l’inizio della contaminazione è stato fatto risalire al 2015, mentre per quel che riguarda la diffusione del cC6O4 la diffusione è stata riportata agli anni 2012/2013, come inizio di attività.
  • distribuzione spaziale -> calcolata dai consulenti tenendo conto della distribuzione dei derivati nelle acque sotterranee e sorgenti, destinate al consumo umano: la diffusione, per il GenX, era di 26 chilometri quadrati e per il cC6O4 di 65 chilometri quadrati, chiaramente con andamenti decrescenti di valore quantitativo man mano che ci si allontanava dal sito Miteni.

ISPRA ha acclarato l’esistenza di un deterioramento e di una compromissione delle acque sotterranee del sito della Miteni significativi e misurabili, per effetto dell’inquinamento prodotto dal GenX e dal cC6O4.

La procura della Repubblica di Vicenza procede (P.P. nr. 1943/2016 RG, modello 21) per i reati di avvelenamento delle acque di falda e superficiali (art. 439 c.p.) e disastro ambientale doloso (art. 434 c.p.). Altri reati contestati, esclusivamente al nuovo menagement della Miteni nonché oggetto di separato procedimento (P.P. nr. 5019/2018 RG), sono quelli di cui agli artt. 452-bis e 452-quinquies (inquinamento ambientale colposo), nonché all’articolo 256, comma 2, decreto legislativo nr. 156/2006, concernente l’attività di gestione dei rifiuti non autorizzata, a proposito dei nuovi PFAS (cC6O4 e GenX) e della consulenza tecnica affidata dalla procura all’ISPRA, che ne ha determinato la significatività e l’ampiezza dell’inquinamento della falda, requisiti richiesti dall’articolo 452-bis c.p., per configurare il delitto di inquinamento ambientale.

Nell’udienza preliminare del 30 novembre 2020 la Procura ha chiesto il rinvio a giudizio di 8 imputati, tutti ex dirigenti della Miteni, accusati di aver immesso nelle acque sotterranee, tra il 2013 e il 2017, i rifiuti pericolosi contenenti GenX e cC6O4, posto che con tali condotte avevano provocato un deterioramento significativo e misurabile delle acque di falda, così come accertato dalla consulenza eseguita. All’esito dell’udienza del 22 marzo 2021, il giudice per le indagini preliminari del tribunale di Vicenza ha disposto la riunione di questi due procedimenti penali e ha rinviato il procedimento all’udienza del 26 aprile 2021. Nel procedimento penale nr. 5019/2018 R.G. vengono contestati agli imputati anche i reati fallimentari, oltre al reato di inquinamento ambientale, di cui all’articolo 452-bis c.p., per l’uso del GenX e del cC6O4 e al reato di cui al reato contravvenzionale, di cui all’articolo 256, comma 2, del TUA. Invero, la procura della Repubblica, dopo la dichiarazione di fallimento della società, ha contestato il reato di bancarotta (art. 223, comma 2, numero 1 e 2, legge fallimentare), per aver causato o aggravato il dissesto per falso in bilancio o con operazioni dolose, con riferimento alle condotte tenute dalla governance.

Altro procedimento penale, iscritto al nr. 9628/2019 R.G., mod. 21 è quello che ha fatto seguito a querele ed esposti pervenuti dalle maestranze Miteni e dal sindacato. Si tratta di un procedimento penale nei confronti di 19 persone, identificate quali responsabili di condotte commissive o omissive, per delitti in materia di lesioni colpose conseguenti all’inosservanza e alla violazione di misure di prevenzione sugli infortuni di lavoro (art. 590, comma 3, c.p.) e per delitti di omicidio colposo di tre lavoratori della Miteni deceduti, connessi anch’essi a violazioni in materia di prevenzione sugli infortuni di lavoro (art. 589, comma 2, c.p.).

Il decimo capitolo si concentra sull’analisi del decreto emesso dal GIP del tribunale di Vicenza in data 26 aprile 2021 che ha disposto il rinvio a giudizio davanti alla Corte d’Assise di tutti gli imputati per il disastro ambientale della Miteni spa di Trissino. Le condotte contestate agli imputati sono le seguenti:

  • concorrevano a cagionare l’avvelenamento delle acque destinate all’alimentazione umana, dopo che erano stati dispersi nel suolo e sottosuolo del sito vari composti chimici a causa sia dell’interramento di rifiuti e di scarti di lavorazione, sia delle carenti modalità adottate per lo smaltimento dei residui di lavorazione, sia della carente tenuta degli impianti, nonostante tali situazioni fossero state ripetutamente rilevate negli studi ambientali commissionati da Miteni ai propri consulenti (Ecodeco, Ingeo e Erm Italia), i quali avevano posto in evidenza la significativa presenza nelle matrici suolo e acque dei composti BTF, alluminio, ferro, manganese, dicloropropano, cloroformio, tetracloroetilene, tricloroetilene e di PFAS.
  • concorrevano a cagionare un disastro ambientale che coinvolgeva le acque superficiali poste in prossimità del sito Miteni e la falda acquifera sottostante con propagazione del plume contaminante su un’area che copre le province di Vicenza, Verona e Padova, disastro dal quale derivava un pericolo per la pubblica incolumità consistito in un elevato bioaccumulo dei contaminanti PFAS-PFOA nella popolazione esposta, con conseguente aumentata incidenza di effetti sanitari indesiderati, quali l’aumento di livello del colesterolo nel siero umano.
  • cagionavano una compromissione ovvero un deterioramento significativo e misurabile delle acque sotterranee insistenti sotto il sito industriale di Miteni Spa, immettendovi le sostanze Gen-X e cC6O4, che successivamente si propagavano nei territori circostanti diffondendosi in un’area non inferiore a 26 km quadrati per il composto Gen- X e non inferiore a 75 km quadrati per il composto cC604.
  • ponevano in essere in tempi diversi, false comunicazioni sociali e con operazioni dolose, cagionavano e comunque aggravavano il dissesto della società Miteni Spa, dichiarata poi fallita dal tribunale di Vicenza in data 9 novembre 2018. In particolare, gli imputati proseguivano nella propria attività industriale, nonostante la consapevolezza, realizzata almeno dall’anno 2009, dello stato di compromissione del sito aziendale in Trissino e dell’inquinamento ambientale in essere (conseguente in via principale alle sostanze c.d. PFAS prodotte dall’azienda) e nonostante il fatto che Miteni Spa presentasse un patrimonio netto sostanzialmente negativo, almeno a partire dall’anno 2010, in ragione delle passività ambientali non iscritte – degli oneri di bonifica, di ripristino ambientale e di messa in sicurezza – collegate al riscontrato inquinamento del sito da valorizzarsi già al 2009, per un importo non inferiore ai 17,5 milioni di euro, omettendo di svalutare immobili e terreni, afferenti al sito che viceversa, avevano nella realtà un valore nullo.

La situazione sul sito ex Miteni di Trissino e i problemi d’inquinamento PFAS collegati sono da ricondurre a due diversi aspetti e filoni: il primo riguarda il decommissioning degli impianti, che occupano complessivamente un’area di circa due ettari all’interno dell’azienda, il secondo riguarda la messa in sicurezza operativa e la bonifica vera e propria dell’area.

L’attività di decommissioning programmata consiste sostanzialmente in 6 attività consequenziali:

  • Disconnessione delle apparecchiature elettriche;
  • Svuotamento di eventuali liquidi presenti all’interno di serbatoi, apparecchiature di processo e tubazioni;
  • Disconnessione della strumentazione a servizio delle apparecchiature di processo;
  • Rimozione dei cavi elettrici;
  • Rimozione dei serbatoi;
  • Rimozione delle apparecchiature di processo e dei serbatoi.

All’esito dell’attività svolta, si può affermare che sia in corso una lenta attenuazione dell’inquinamento, tenuto conto del fatto che si tratta di un inquinamento protrattosi dal 1966 al 2013. Allo stato attuale risulta essere cessata ogni nuova immissione, ma permane il problema costituito da tutta quella massa di inquinanti che sono stati storicamente interrati nel sito ove insiste la Miteni: questo deposito interrato, infatti, viene continuamente dilavato dal movimento della falda che si alza e si abbassa sotto lo stabilimento industriale; di conseguenza, il ciclico movimento della falda, che in modo continuativo porta al lavaggio del deposito di rifiuti, è destinato ad alimentare ancora per molto tempo l’inquinamento dell’area. Tuttavia, a partire dal 2017. si sono ridotte le concentrazioni di PFOS (acido perfluorottansolfonico) e di PFOA (acido perfluorottanoico) su tutti i territori che sono stati monitorati. Vi è inoltre ancora una residua concentrazione di GenX e di cC6O4. Le sostanze oggetto di inquinamento da PFAS si trovano praticamente ovunque nell’area di interesse, perché sono disciolte all’interno dell’acqua della falda sotto gli impianti, aree a valle rispetto a quelle dalle quali è partita la contaminazione, nonché su tutti i terreni superficiali, sui terreni profondi e sotto le porzioni dell’argine del bosco, a fianco della Miteni. Inoltre questi composti chimici, oltre ad avere un’elevatissima mobilità nell’acqua, non sono per niente biodegradabili e possono vivere fino a novanta anni.

Per la bonifica dei terreni sono state proposte due prove pilota in zone specifiche sorgenti: la prima è l’ossidazione chimica, che opera mediante l’inserimento nel terreno dell’ossidante chimico che andrà a distruggere direttamente il composto prima che si propaghi; la seconda si sostanzia nel desorbimento termico, ovvero nel riscaldamento di una porzione di terreno, nella successiva aspirazione dei composti ed abbattimento attraverso un ossidatore catalitico.

 

La contaminazione da sostanze perfluoroalchiliche nella regione Piemonte è una diretta conseguenza della produzione di PFAS svolta dalla società Solvay nello stabilimento di Alessandria, sito nella frazione di Spinetta Marengo. L’inquinamento da PFAS, che si diparte dallo stabilimento Solvay di Spinetta Marengo, si è propagato sia attraverso le acque sotterrane, sia attraverso le acque superficiali per centinaia di chilometri di distanza fuori del territorio di Alessandria.

Nel 2008, le indagini del NOE hanno portato all’incriminazione dei vertici di Ausimont e di Solvay Specialty Polymers per l’avvelenamento doloso delle acque, che la Corte di Assise di Alessandria, con sentenza del 14 dicembre 2015, ha derubricato nel reato di disastro ambientale innominato colposo, con effetti permanenti.

Punto di partenza, per comprendere lo stato si inquinamento del sito di Spinetta Marengo, è la sentenza della Corte di Cassazione nr. 13843 del 2020, che ha ritenuto gli imputati responsabili del reato di disastro ambientale nella loro qualità di dirigenti della Solvay Specialty Polymers Italy Spa, confermando la sentenza della corte torinese. I ricorsi degli imputati contro la sentenza della Corte d’Appello di Torino sono stati rigettati dalla Corte di Cassazione. Pertanto, è divenuta definitiva la condanna degli imputati, nella loro qualità di gestori dello stabilimento Solvay di Spinetta Marengo, a pene detentive, con il riconoscimento del beneficio della sospensione condizionale della pena. È divenuta altresì definitiva la condanna degli stessi imputati, in solido con il responsabile civile Solvay Specialty Polymers Italy s.p.a., al risarcimento dei danni in favore delle costituite parti civili: Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, Comune di Alessandria, Legambiente Piemonte e Valle d’Aosta Onlus, WWF Italia Onlus, C.G.I.L. Camera del Lavoro Territoriale di Alessandria, Medicina Democratica, Movimento di Lotta per la Salute, società cooperativa, Associazione I due Fiumi Erica – Pro Natura – Alessandria, singoli privati. Le condotte contestate sono state le seguenti:

  • omessa manutenzione della rete idrica dello stabilimento;
  • omessa segnalazione alle autorità competenti della portata reale dell’inquinamento;
  • omessa adozione di qualsiasi opera rivolta ad eliminare, ridurre, confinare e contenere l’inquinamento in atto;
  • perdurante somministrazione dell’acqua emunta dalla falda sottostante allo stabilimento alle abitazioni limitrofe e ai dipendenti.

Così come avvenuto per il sito della Miteni di Trissino, anche il sito della Solvay di Spinetta Marengo rappresenta una fonte notevole di contaminazione sia per le acque sotterranee, sia per le acque superficiali. La falda sotterranea sotto lo stabilimento risulta contaminata in particolare da PFOA e da cC6O4. La barriera idraulica predisposta da Solvay per bloccare la veicolazione dell’inquinamento nelle acque sotterranee non è efficace, talché la contaminazione si sta diffondendo nelle falde a valle dello stabilimento. Non meno preoccupante è l’inquinamento delle acque superficiali, a partire da quelle del fiume Bormida, dove la Solvay scarica le acque reflue contenenti i PFAS senza effettuare nessun trattamento per ridurne la quantità.

 

Sebbene i casi più gravi di contaminazione da PFAS siano localizzati nella Regione Veneto e nella Regione Piemonte, data la presenza dei due stabilimenti produttivi Miteni di Trissino e Solvay di Spinetta Marengo, la diffusione dei PFAS, comunque, si riscontra in tutto il territorio italiano e, in particolare, nelle Regioni del Nord e nel bacino del Po. Si tratta di un fenomeno preoccupante, che evidenzia come ormai i PFAS siano un problema generale di contaminazione di tutto il territorio italiano, e che, peraltro, non si possa risolvere fino a quando lo Stato non avrà fissato i limiti sulle matrici ambientali (terreni, acque di falda e scarichi), senza i quali non sarà possibile procedere con le bonifiche delle stesse matrici ambientali ritrovate contaminate.

Al di fuori delle Regioni Veneto e Piemonte, si è riscontrata una situazione di contaminazione principalmente nelle Regioni Lombardia, Emilia-Romagna, Lazio e Toscana. La Commissione di inchiesta ritiene che non si possa escludere che la contaminazione da PFAS interessi anche le altre Regioni italiane e che anzi sia quasi certa che tale contaminazione sia ormai diffusa dappertutto: nelle Regioni diverse da quelle sopra elencate non sono stati effettuati monitoraggi da parte delle Arpa regionali, per mancanza di strumenti di controllo – solo poche Arpa, infatti, dispongono di strumentazione, di metodi analitici e di tecnici esperti per svolgere le analisi di controllo sui PFAS. Tale situazione fa emergere ancora una volta la necessità di rafforzare gli strumenti a disposizione delle Arpa per il pieno espletamento delle funzioni di controllo ambientale a cui sono preposte.

 

Successivamente la Commissione ha scelto di incentrarsi sugli aspetti sanitari associati all’esposizione alle sostanze perfluoroalchiliche. In particolare, le condizioni di salute e le patologie per le quali vi è ad oggi un’evidenza di una possibile associazione con l’esposizione a PFAS sono:

  • immunotossicità;
  • ipercolesterolemia;
  • aumento dei trigliceridi;
  • aumento della pressione sanguigna e ipertensione (effetto maggiore nelle femmine);
  • alterazione di livelli di glucosio;
  • aumento della percentuale di grasso corporeo in ragazze con esposizione prenatale della madre;
  • effetti epatici;
  • patologie tiroidee;
  • alterazione livelli urea ed effetti renali;
  • diminuita risposta vaccinale;
  • colite ulcerosa;
  • alterazioni scheletriche;
  • rischio cardiovascolare;
  • alterazioni riproduttive maschili;
  • tossicità materna e fetale: diminuito peso alla nascita, preeclampsia, alterazioni del sistema riproduttivo femminile, obesità e alterazioni metaboliche in età adulta.

Nonostante i dati sopra esposti indichino un rapporto di causa/effetto tra l’esposizione ai PFAS e le gravi patologie sopra indicate, per i lavoratori ex Miteni vi è stato un riconoscimento solo parziale della malattia professionale. L’INAIL ha riconosciuto come malattia professionale il mero iperaccumulo di PFOA nel sangue, equiparandolo alla ritenzione all’interno dell’organismo di un mezzo di sintesi, ossia di materiale inerte, che non produrrebbe alcuna conseguenza di tipo fisiopatologica. Nel caso degli ex lavoratori Miteni, è stata riconosciuta una menomazione dell’integrità psicofisica pari al 2 per cento, che comunque non dà diritto a indennizzo poiché non raggiunge il grado minimo del 6% indennizzabile previsto dal decreto legislativo n. 38 del 2000.

L’INAIL ha esaminato anche le domande pervenute in relazione ai tre dipendenti deceduti per i quali la procura della Repubblica in Vicenza ha proceduto a iscrizione per il reato di omicidio colposo, di cui si è detto. In questi casi l’INAIL non ha riconosciuto alcun diritto alla rendita ai superstiti, in quanto il decesso non è stato ritenuto riconducibile all’evento. Tale valutazione è stata fatta in relazione ai compiti propri dell’Istituto, e quindi, esclusivamente, per le valutazioni concernenti il riconoscimento della malattia professionale e dunque dal punto di vista assicurativo e indennitario.

In conclusione, all’esito di questo lungo excursus, la Commissione di inchiesta dà conto del contributo scientifico dei consulenti della Commissione, nonché di tutti gli studi degli effetti specifici dell’esposizione ai PFAS della popolazione, ma che tuttavia, ad oggi, non rappresentano una posizione prevalente riconosciuta dagli organismi nazionali e istituzionali, in materia di salute.

Occorre uno sforzo delle istituzioni a riconoscere la piena validità dei dati offerti dalla comunità scientifica nazionale e internazionale sul danno alla salute, già accertato.

Infine, un aspetto molto preoccupante riguarda la presenza dei PFAS riscontrati in alte concentrazioni negli alimenti di origine vegetale e animali che normalmente rappresentano la dieta della popolazione. La Regione Veneto nel 2016 ha commissionato all’ISS un’indagine sulla presenza dei PFAS negli alimenti di origine vegetale e di origine animale prodotti nelle aree delle province di Vicenza, Verona e Padova contaminate da PFAS. Lo studio, denominato «Piano di campionamento degli alimenti per la ricerca di sostanze perfluoroalchiliche», è stato realizzato dall’Istituto Superiore di Sanità tra il 2016 e il 2017. I campionamenti degli alimenti sono stati effettuati dall’ARPAV e dalle ULSS delle Province di Vicenza, Padova e Verona, mentre le analisi sui campioni prelevati sono state eseguite dall’ARPAV di Verona, dal Dipartimento di sicurezza alimentare, nutrizione e sanità pubblica e veterinaria dell’ISS, a Roma, e dall’Istituto zooprofilattico sperimentale delle Venezie di Legnaro (PD). Sono state effettuate analisi su 1.248 alimenti, di cui 614 di origine vegetale e 634 di origine animale. Gli alimenti contaminati con almeno una molecola di PFAS sono risultati 26, per un totale di 204 campioni su 792 analizzati. I risultati più allarmanti riguardano i seguenti alimenti, contaminati da livelli di PFAS molto elevati, le cui concentrazioni più alte si riportano di seguito: 37.100 ng/Kg nelle uova; da 400 a 36.800 ng/Kg nelle carni (dal muscolo bovino al fegato suino); 18.600 ng/Kg nel pesce (carpe); 3.500 ng/Kg nelle albicocche; 2.900 ng/Kg nell’uva da vino; 2.700 ng/Kg nelle ciliegie; 2.600 ng/Kg nelle pere; 2.600 ng/Kg nei fagiolini; 1.900 ng/Kg nel mais; 1.300 ng/Kg nella lattuga; 800 ng/Kg nei piselli e nei pomodori.

I dati riscontrati sono preoccupanti, se si considera che il limite fissato dall’Agenzia europea per la sicurezza ambientale per l’assunzione settimanale tollerabile, attraverso la dieta, è pari a 4,4 ng/Kg di peso corporeo per le quattro molecole PFOA, PFOS, PFNA e PFHXS.

La gravità degli effetti sulla salute umana rende ancora più urgente e non più procrastinabile la fissazione di limiti sulle matrici ambientali, poiché solo risanando l’ambiente dal quale la popolazione attinge le risorse è possibile eliminare gli effetti nocivi sulla salute. Tuttavia, per risanare l’ambiente devono però prima essere fissati i limiti sulle matrici ambientali, che al momento non ci sono. I limiti vanno fissati, con legge dello Stato, in base al principio di precauzione. Il principio di precauzione prevede limiti più restrittivi per la tutela ambientale, rispetto a quelli per la tutela della salute, e questo principio è alla base di tutta la legislazione ambientale, dall’acqua, all’aria, ai rifiuti, alle acque di falda, e così via.

Il dato più rilevante emerso dall’indagine svolta della Commissione parlamentare di inchiesta è che nella normativa italiana non sono ancora fissati i limiti sulle principali matrici ambientali. La mancanza dei limiti ambientali nelle acque di scarico, nelle acque di falda e nei terreni impedisce alle autorità competenti di intervenire per imporre i provvedimenti necessari di bonifica delle matrici ambientali contaminate. Allo stato attuale, solo la Regione Veneto, ha fissato sui PFAS, su indicazione dell’ISS (Istituto Superiore di Sanità), alcuni limiti che, non solo sono incompleti in quanto non riguardano tutte le matrici ambientali e non contemplano tutti i PFAS, ma non nemmeno a tutti i PFAS, come i più recenti Gen-X e il cC6O4.

Inoltre, la mancanza dei limiti non consente alla magistratura di contestare i reati connessi con la contaminazione delle matrici ambientali. In conclusione, appare evidente che sia necessario fissare limiti completi e nazionali, in quanto il problema dei PFAS riguarda l’intero territorio italiano. Il combinato disposto degli articoli 75 e 101 del decreto legislativo n. 152 del 2006 non lascia spazio a dubbi che la competenza a fissare limiti per le nuove sostanze non presenti nelle suddette tabelle sia di esclusiva competenza statale, mentre la competenza regionale si esaurisce nell’imposizione di limiti più restrittivi, rispetto a quelli stabiliti dallo Stato. La fissazione dei limiti deve, quindi, essere fatta dallo Stato, con apposita normativa.

Le tabelle riassuntive che seguono illustrano in sintesi la situazione attuale in Italia relativamente ai limiti vigenti sulle matrici ambientali e sanitarie:

Alla presente relazione sono stati allegati i seguenti documenti: Parere di ISPRA sui limiti agli scarichi (doc. 152/3); Parere dell’ISS sui limiti dei PFAS nelle acque potabili (doc. 331/2); Relazione tecnica del consulente della Commissione dott. Andrea Di Nisio sugli aspetti sanitari dell’esposizione ai PFAS (911/2).

 

(a cura di Ludovica Simbula, Master APC dell’Università di Pisa)