Sono quasi sempre invisibili, ma diventano bersagli vistosi per i galoppini delle mafie che con loro fanno il tirassegno, mentre raccolgono lamiere per farsi una baracca, come è accaduto a giugno 2018 a Somaila Sacko, 29 anni, che viveva in un riparo di fortuna all’interno della tendopoli di San Ferdinando, in Calabria. Sono i braccianti, la forza lavoro più a buon prezzo e più ricattabile. Per costare poco l’intermediazione del lavoro deve essere appannaggio delle agromafie. Il caporalato è la base del controllo del territorio da parte di queste organizzazioni criminali che proiettano un cono d’ombra sull’intero mercato agroalimentare.
È per questo che il V rapporto “Agromafie e caporalato” curato dall’Osservatorio Placido Rizzotto della Flai-Cgil è interessante per chi, come gli amministratori locali legati ad Avviso Pubblico, cerca di salvaguardare l’agibilità democratica dei rispettivi territori.
Il rapporto, presentato oggi – 16 ottobre – a Roma, spiega proprio il nesso fra lo sfruttamento selvaggio del lavoro bracciantile, migrante e non, e la persistenza delle agromafie.
«La modalità mafiosa si è intrecciata con quella parte di imprenditoria desiderosa di guadagni facili, che sceglie di competere sul mercato attraverso il dumping contrattuale e la concorrenza sleale, scaricando sui lavoratori il contenimento dei costi e l’aumento dei margini di profitto» ha spiegato Giovanni Minnini, segretario generale Flai Cgil.
Tra gli altri, al tavolo dei relatori, la ministra dell’agricoltura Teresa Bellanova, il presidente della Commissione antimafia Nicola Morra, il Procuratore Generale della Corte di Cassazione Giovanni Salvi, Andrea Ricciardi della Comunità di Sant’Egidio e a chiudere il segretario generale della Cgil Maurizio Landini.
Il Rapporto fotografa la situazione degli ultimi due anni (ottobre 2018-ottobre 2020) in un comparto in cui 180.000 lavoratori sono particolarmente vulnerabili, e quindi, soggetti a fenomeni di sfruttamento e caporalato.
La conoscenza puntuale del territorio nazionale, caratteristica del sindacato, è un elemento preventivo per contrastare le organizzazioni mafiose che si infiltrano nella filiera per dirottare a loro vantaggio la ricchezza prodotta lungo la catena di valore dalla semina al mercato. Alle pratiche di sfruttamento, raccomanda il sindacato, vanno contrapposti i diritti dei lavoratori a prescindere dalla nazionalità delle maestranze.
Anche la cittadinanza, infatti, è motivo di forti criticità: da una parte l’impianto della “legge Bossi-Fini”, dall’altra gli ultimi decreti focalizzati sull’accostamento tra immigrazione e criminalità (la cosiddetta crimmigration). I dati in possesso dell’Osservatorio alla prima metà di settembre non hanno permesso una fotografia puntuale dell’andamento della regolarizzazione. 207.542 le domande presentate al 15 agosto di cui 30.694 riguardanti il settore primario (comparabile al 2003 della “grande sanatoria”).
L’attenzione è stata anche posta alle condizioni alloggiative poiché molti braccianti vivono all’interno di insediamenti informali (ghetti, baraccopoli). Incrociando tale situazione con le basse retribuzioni si genera un circolo vizioso che rende impossibile fuoriuscire da questo perverso meccanismo emarginante.
Il sindacato vuole evidenziare luci ed ombre delle disposizioni normative degli ultimi anni per attivare interventi di aggiustamento necessari soprattutto per prevenire infortuni sul lavoro dovuti alla mancanza di Dispositivi di Protezione Individuale (DPI), al cottimo e ai ritmi estenuanti di lavoro, agli attacchi razzisti che vengono perpetrati contro i lavoratori agricoli di origine straniera.
È in crescita la componente femminile delle maestranze di origine straniera in relazione alla cosiddetta femminilizzazione dei flussi e questo ha un riflesso in mercati del lavoro che tendono a configurarsi come fortemente segmentati sulla base di genere, classe e nazionalità. In questo ambito occupazionale, emerge un maggior isolamento delle lavoratrici agricole che tende a caratterizzarsi con una forte dipendenza dal datore di lavoro rendendo i rapporti particolarmente permeabili a forme di abuso (incluse quelle a sfondo sessuale) e sfruttamento: le paghe di fatto sono mediamente minori, mentre gli orari di lavoro sono pressoché assimilabili a quelli dei colleghi maschi. Anche le donne, come gli uomini, sono reclutate da caporali (o dalla “caporala”, come nel brindisino/tarantino) o da datori di lavoro che mirano a sfruttare a loro vantaggio la loro maggior vulnerabilità.
Per questo il Rapporto ha provato a misurare l’efficacia della legge 199/2016 analizzando 260 procedimenti penali, 163 dei quali nel settore agricolo. Più della metà (143) non riguardano il Sud Italia. Veneto e Lombardia – con le Procure di Mantova e Brescia – sono le Regioni che seguono più procedimenti; così le Procure di Emilia-Romagna, Lazio (con Latina al primo posto) e Toscana (con Prato). Dati che vanno incrociati con il diverso peso che il settore ha nelle diverse ripartizioni geografiche, al 2018 al Sud e sulle Isole le maestranze ufficiali erano – tra italiani e stranieri – circa 600.000, mentre nel Centro-Nord quasi 400.000 su 1.060.000 unità complessive.
Mettendo a fuoco la problematica della catena del valore, Flai-Cgil propone un salario minimo di 12 euro l’ora per gli occupati nella prima fase (semina/raccolta), quella che influenza tutte le fasi successive. I 12 euro, secondo il sindacato, dovrebbero permettere, anche in base a verifiche successive, di ridurre progressivamente lo sfruttamento che si concentra nelle prime fasi della filiera, quella dove l’impiego dei caporali dilaga anche per la mancanza di servizi del lavoro efficaci.
Il Rapporto si concentra su alcuni casi di studio territoriali effettuati in Veneto (nelle province di Verona, Vicenza, Padova e Rovigo), nella livornese Val di Cornia, nella Piana del Sele tra Battipaglia ed Eboli, in Puglia nelle province di Brindisi e Taranto ed infine la Sicilia con le province di Agrigento e di Trapani.
Ovunque sono compresenti occupati regolari con contratto rispettato in tutte le sue parti, occupati con contratto ma con parti dello stesso non rispettati (riduzione delle giornate di lavoro, salario minore di quello contrattuale, risposi e ferie tagliati), occupati senza contratto con rapporti di lavoro sbilanciati o in condizione pressoché servile. Le ultime tre categorie risentono dell’intermediazione illegale di manodopera.
Nel Veneto è stato approfondito il rapporto tra impiego di manodopera irregolare e la presenza delle organizzazioni criminali, analizzando la documentazione reperibile delle Direzione Distrettuali Antimafia. Nella Piana del Sele (Salerno) e in Puglia l’approfondimento ha riguardato il rapporto tra processo di modernizzazione della struttura produttiva e il permanere del caporalato, correlato ad una visione ancora di tipo patriarcale e paternalistica. Infine, il Rapporto ha focalizzato l’attenzione sull’Agenzia contro il caporalato della Gran Bretagna, descrivendo le norme e l’impatto sul fenomeno.