Bandi fotografia: il codice penale punisce anche gli affidamenti disposti senza gara

 Il principio
La norma che sanziona il fenomeno dei cc.dd. “bandi fotografia” contenuta all’art. 353-bis del codice penale è applicabile anche al provvedimento con cui sia stato illecitamente disposto l’affidamento diretto di un appalto senza la preventiva attivazione di una procedura di gara.
È questo il principio affermato dalla sesta Sezione della Corte di Cassazione penale con la sentenza n. 13431 del 20 marzo 2017.

Il caso
All’esito di complesse indagini penali, nel settembre 2016 il G.i.p. del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere emetteva un’ordinanza di custodia cautelare nei confronti di venti indagati, ritenendo presenti una molteplicità di fatti illeciti ‒essenzialmente di turbativa d’asta o del procedimento a monte, nonché di corruzione, di truffa e di abuso d’ufficio ‒compiuti nell’ambito di una serie di gare indette da vari comuni campani per l’affidamento e la gestione in appalto dei servizi relativi al c.d. “ciclo integrato dei rifiuti”, fatti riconducibili nell’ambito di operatività dell’associazione per delinquere costituita dai funzionari pubblici e dai vertici della società risultata aggiudicataria delle predette gare. I funzionari pubblici e gli amministratori della predetta società erano stati arrestati in quanto a loro carico era stata ravvisata la presenza di gravi indizi di colpevolezza e, con la sentenza in rassegna, la Cassazione è stata chiamata a valutare la legittimità delle predette misure cautelari.

Il quadro indiziario
Con la sentenza in esame la Suprema Corte conferma, in primo luogo, la legittimità del provvedimento con il quale era stato disposto l’arresto poiché in tale provvedimento si dava debitamente conto dell’esistenza di un ampio quadro indiziario, caratterizzato da una specifica gravità e costituito da molteplici elementi, tra i quali emergevano, in particolare, i seguenti:

  • indebita ingerenza, da parte di un collaboratore dell’impresa aggiudicataria, nella riformulazione del bando originario operata da parte della stazione appaltante, riformulazione effettuata dopo il ricevimento di rilievi formalizzati da alcune ditte concorrenti;
  • scelta, da parte del comune, di non annullare in autotutela il bando per indire una nuova gara ma di procedere ad una mera rettifica dello stesso, con il conseguente slittamento dei termini per il ricevimento delle offerte e con una pubblicità diversa, meno ampia e meno diffusiva, rispetto a quella adottata per il bando iniziale;
  • dichiarazioni di una dipendente comunale, che confermavano i rapporti “stretti” del comune con la società aggiudicataria della gara, con palesi ingerenze dei relativi collaboratori che erano soliti presentarsi negli uffici comunali ed avvalersi liberamente del computer di una dipendente addetta all’ufficio ecologia;
  • valenza sintomatica delle modifiche apportate al bando di gara con la sopra citata rettifica, con precisazione che tali modifiche erano sostanzialmente sovrapponibili a quelle apportate, grazie alla pressione operata da parte dei collaboratori della medesima impresa aggiudicataria, ad un altro bando di gara pubblicato da un comune contiguo;
  • previsione nel bando di “varianti migliorative consistenti nella messa a disposizione di impianti fissi e mobili da ubicarsi sul territorio comunale”, formula riferita, in concreto, alla realizzazione di isole ecologiche e per ciò dotata di una chiara valenza disincentivante rispetto alle altre impese attive nel settore dei rifiuti: tale variante si caratterizzava, infatti, soprattutto per l’attività di carattere edilizio, e costituiva pertanto una caratteristica ritagliata proprio sulle specifiche attività della società poi risultata aggiudicataria che, in origine, si era espansa soprattutto nel settore edilizio e che disponeva già di un’area nel territorio comunale da adibire alla realizzazione di isole ecologiche;
  • attribuzione alla ditta appaltatrice dei ricavi provenienti dal riciclo dei rifiuti trattabili, con un conseguente ed oggettivo danno economico per l’Ente appaltante, tenuto per legge a sopportare i costi della raccolta e dello smaltimento dei rifiuti urbani, ma privato, in base alle previsioni del bando di gara, della possibilità di lucrare i guadagni provenienti dai materiali riciclabili;
  • richiesta disponibilità – ai fini dell’ammissione alla gara, con conseguente portata disincentivante verso gli altri possibili concorrenti – di specifici mezzi ed attrezzature, individuati “non in base alle loro qualità tecniche o costruttive, ma in base alla loro appartenenza ad un determinato marchio d’azienda” coincidente con quelli a disposizione della società risultata aggiudicataria;
  • omesso apprezzamento, nella valutazione del contratto di avvalimento fra la società aggiudicataria ed altra società ausiliaria, dell’esistenza di un precedente penale, ancorché di carattere contravvenzionale, a carico del titolare di quest’ultima società, che, seppur non ostativo, avrebbe meritato una specifica attenzione, trattandosi di condanna per un reato ambientale;
  • continua ingerenza degli organi politici comunali sugli atti della procedura.

La Cassazione sottolinea come tali elementi indiziari non potevano essere valutati atomisticamente ma dovevano essere considerati complessivamente, al fine di coglierne la reale valenza probatoria, utile a confermare l’esistenza delle esigenze cautelari che avevano portato all’arresto degli imputati.

Ciò, peraltro, a prescindere dagli aspetti squisitamente formali (la difesa dell’imputato aveva infatti contestato le valutazioni svolte del Tribunale penale a margine della natura giuridica della rettifica del bando ed in merito all’indicazione di specifiche marche dei veicoli, così come in relazione al carattere non ostativo della condanna riportata dall’impresa ausiliaria): per la Suprema Corte, al contrario, la condotta sanzionata dall’art. 353 c.p., per essere punibile penalmente, non deve essere necessariamente connotata da illegittimità formali, posto che ‒ come l’esperienza giudiziaria insegna ‒ i casi più frequenti, e nel contempo più subdoli, consistono proprio nell’inserimento nel bando di gara di clausole formalmente legittime, che rispondono tuttavia, a monte, ad indebiti accordi collusivi.

L’affidamento diretto illecito è punibile con la norma che sanziona i “bandi fotografia”
Secondo la Suprema Corte, l’art. 353 del codice penale, la cui rubrica recita “Turbata libertà degli incanti”, punisce chiunque, mediante le condotte alternative ivi indicate – ossia “con violenza o minaccia, o con doni, promesse, collusioni o altri mezzi fraudolenti” – “impedisce o turba la gara nei pubblici incanti o nelle licitazioni private per conto di pubbliche amministrazioni, ovvero ne allontana gli offerenti”. Da ciò – prosegue la Cassazione – consegue l’agevole individuazione dell’oggetto della condotta, che può consistere:

  • nell’impedimento della gara, intendendosi per tale anche la sua sospensione per un apprezzabile periodo di tempo;
  • nell’allontanamento dalla gara degli offerenti;
  • nel turbamento della gara medesima, solitamente inteso dalla giurisprudenza in senso ampio, così da ricomprendervi ogni manifestazione concretamente idonea ad alterare l’esito della gara, pur in difetto della realizzazione di tale specifico esito (cfr. Corte di Cassazione Penale, Sez. 6, sentenze n. 40304/2014, n. 41365/2013, n. 28970/2013, n. 12821/2013).

È pertanto evidente che il bene giuridico tutelato dalla norma consiste nella salvaguardia della libertà di iniziativa economica, attraverso la quale si realizza l’interesse della P.A. all’individuazione del contraente più competente alle condizioni economiche migliori. Nella pronuncia in esame, viene peraltro ribadito che, ferma restando l’indubbia e stretta correlazione fra i due predetti beni giuridici (libera iniziativa economica e individuazione del miglior contraente privato), non necessariamente alla lesione del primo deve seguire un’effettiva lesione del secondo, trattandosi di un reato qualificabile come reato di pericolo.

Da quanto sopra consegue inoltre, quale logico corollario, che l’operatività della tutela apprestata dalla disposizione in esame presuppone l’esistenza di una gara (quale che sia la denominazione formale della procedura avviata) e, dunque, di un bando o di un atto equipollente che abbia determinato la sua indizione.

L’art. 353-bis del codice penale – norma introdotta con la legge n. 136 del 2010 , con la rubrica di “Turbata libertà del procedimento di scelta del contraente” – presenta invece carattere residuale (“Salvo che il fatto costituisca più grave reato…”) e sanziona chiunque, sulla scorta delle medesime condotte indicate dal precedente art. 353 (ovverosia “con violenza o minaccia, o con doni, promesse, collusioni o altri mezzi fraudolenti”) “turba il procedimento amministrativo diretto a stabilire il contenuto del bando o di altro atto equipollente al fine di condizionare le modalità di scelta del contraente da parte della pubblica amministrazione”.

Identico è peraltro – come emerge anche dalla collocazione sistematica delle due norme in esame – il bene giuridico tutelato dall’art. 353-bis del codice penale rispetto a quello oggetto della fattispecie di cui all’art. 353, poiché anche in questo caso la norma è diretta a colpire i comportamenti che, incidendo illecitamente sulla libera dialettica economica, mettono a repentaglio l’interesse della P.A. di poter contrarre con il miglior offerente.

Non così – prosegue la Corte di Cassazione – per ciò che concerne il momento di operatività della tutela apprestata dalle due disposizioni, posto che:

  • nel caso della turbativa d’asta ex art. 353 c.p., viene richiesta l’esistenza di una gara, comunque denominata;
  • nel caso di turbata libertà del procedimento di scelta del contraente ex art. 353-bis c.p., il momento di operatività viene anticipato nel tempo, quando un bando (o altro atto equivalente) non sia stato adottato.

L’art. 353-bis c.p., inoltre, non delimita affatto la tipologia delle procedure tutelate, mentre l’art. 353 c.p. le individua specificamente nei pubblici incanti e nelle licitazioni private (ferma restando la già richiamata e consolidata interpretazione che ritiene sufficiente la sola presenza di una “gara”, comunque denominata): la lettera della norma di cui all’art. 353-bis c.p. si riferisce infatti al “contenuto del bando o di altro atto equipollente”, dovendosi intendere per tale ogni atto che ‒ così come recita la rubrica della norma ‒ abbia l’effetto di avviare la procedura di scelta del contraente, venendo così in considerazione anche la determinazione a contrarre qualora la stessa, per effetto della illecita turbativa, non preveda l’espletamento di alcuna gara, bensì l’affidamento diretto ad un determinato soggetto economico. In tal senso, peraltro, si era da tempo espressa la giurisprudenza di legittimità ‒ cfr. Cass. Sez. 6, sentenze n. 43800/2012 e n. 1/2014 ‒ che aveva già avuto modo di sottolineare come, nella nozione di “atto equipollente” previsto nella norma in esame, “rientra qualunque provvedimento alternativo al bando di gara, adottato per la scelta del contraente, ivi inclusi, pertanto, quelli statuenti l’affidamento diretto” (nella fattispecie, la Corte ha ritenuto tale “una delibera di proroga di contratto di appalto di servizi già in corso”).

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